Cronaca di un’estate: cronaca della “quasi” felicità

 
 

“Questo non è un film recitato da attori, ma vissuto da uomini e donne che hanno donato momenti della loro vita a una nuova esperienza di ‘Cinema-verità’.” Così sentenzia la voce off dell’antropologo Jean Rouch, che insieme al sociologo Edgar Morin, nell’estate del 1960 realizza Cronaca di un’estate, il documentario con cui nasce il cinema-veritè, e prende vita un esperimento che non solo darà risposte alle domande dei registi, ma scandaglierà le idee e i pensieri dei francesi alle porte di un nuovo decennio, alle prese con nuove questioni sociali.

Rouch e Morin si chiedono come reagiranno i loro protagonisti davanti alla macchina da presa, se saranno intimiditi, naturali, se indosseranno una maschera o riusciranno ad essere sinceri fino a mettersi a nudo. La risposta ci sarà solo a esperimento concluso e soprattutto mostrato, una volta ultimato e montato, agli attori stessi. L’indagine, cavalcata attraverso i pensieri e le esperienze di una fauna variegata per genere, etnia, estrazione sociale, scelte di vita, parte da una semplicissima, eppure dilemmatica domanda: “Sei felice?” sì, no, quasi. Quest’ultima risposta è senza dubbio la più interessante: la felicità è quasi possibile, ma c’è sempre qualcosa o qualcuno che rema contro, che siano gli obblighi, i salari troppo bassi, il fallimento amoroso, l’affievolirsi di un ideale politico. 

Con la prima confessione i registi ci portano a conoscere, almeno in superficie, i protagonisti della loro “cronaca estiva” per poi focalizzarsi uno ad uno, o in scene corali, sulle questioni calde dell’epoca e su quelle che a livello personale smuovono o immobilizzano i soggetti d’indagine. Il lavoro dell’operaio, i sogni dei giovani, la guerra in Algeria, il massacro in Congo, l’attenzione verso le minoranze, le vacanze estive, l’allontanarsi dalle regole della famiglia borghese sono provocazioni lanciate a colpo di fionda, pronte a colpire in pieno chi è più suscettibile. Landry, l’operaio di colore riflette sulle differenze tra essere lavoratore in Africa e in Francia, su come si senta vicino a tutti gli africani che subiscono le angherie dei bianchi e senza volere solletica l’intervento di Marceline che prova lo stesso sentimento verso tutti gli ebrei che con lei condividono la stessa fede. Rouch e Morin spingono sull’acceleratore della scomodità, consci e lucidi, lasciano emergere i pregiudizi sul diverso fino a renderli materiale di insegnamento: i parigini vengono delucidati sui clichés che colpiscono i neri e gli africani sul significato del numero che Marceline ha impresso sull’avambraccio. Tra ingenuità e brutalità gli attori improvvisati si denudano più o meno platealmente. I registi solleticano le corde più dolorose della loro emotività e indugiano sulle rughe d'espressione dei loro volti, alla ricerca di un’autenticità o di una vena attoriale, che sostenga o affondi le loro tesi; l’italiana Marilù, fuggita da Cremona per sopravvivere ai progetti borghesi della sua famiglia d’origine, mostra la paura della solitudine, del fallimento, tremando vistosamente, piangendo eppure mai sottraendosi all’occhio indiscreto della macchina da presa. Sincera o artificiosa? Non è dato saperlo, e neppure importa, ciò che colpisce è la percezione che genera sugli spettatori, sia che essi siano i suoi compagni di avventura, sia che si trovino in sala dall’altra parte di uno schermo.

Rouch e Morin scoprono la soggettività che prevale sulla fredda oggettività di chi resta un osservatore neutrale. Nel monologo e nel dialogo prevale l’emotività e il bisogno di schierarsi, prendere una posizione, dire la propria anche quando non si è interpellati. Primissimi piani si alternano a panoramiche che concedono respiro alla scena, che spaziano dal singolare al collettivo soffermandosi sulla città semideserta in un’estate ventosa e non sempre calda. Le provocazioni del sociologo e dell’antropologo ancora oggi che il film è approdato nella miniera d’oro di Mubi, riecheggiano e attraversano tempo e spazio fino a noi che finiamo con il chiederci se i tempi siano davvero cambiati, se la società si sia evoluta o sia rimasta ferma in una pericolosa fase di stallo. Gli emarginati non hanno cambiato colore di pelle, provenienza o credo, le ingiustizie sul lavoro e le dinamiche di potere si sono amplificate, il nascondersi dietro a una etichetta per comodità o paura sussiste. È dunque palese che la cronaca di Rouch e Morin non è quella di una sola estate, bensì quella di un istante che perdura e identifica una lunga e piatta contemporaneità quasi felice.

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