Grease - Rise of the Pink Ladies: tra recupero e innovazione

 
 

Creata da Annabel Oakes, la serie tv Grease: Rise of the Pink Ladies, in onda su Paramount +, è il prequel di Grease, fuori dal canone e dalla verosimiglianza storica, ma centrale nel progetto di recupero dei classici da parte della piattaforma streaming statunitense.

Basterebbe stare attenti alle parole utilizzate dai personaggi di Grease: Rise of the Pink Ladies, persuasive e fuori dal tempo, per capire il senso di un’operazione nostalgica che immagina un utopico (o ucronico) 1954 in cui le donne hanno già la consapevolezza e gli strumenti culturali della protesta per indignarsi e arginare la misoginia e lo strapotere maschile. Ragazze, non donne ancora, che riescono a modificare i meccanismi sottili di quell’immaginario sociale di cui parlava Cornelius Castoriadis. Costumi e tradizioni che vengono messe in discussione in dieci puntate, a suon di motteggi femministi, slogan, acrobazie forsennate, balli multietnici e creazione di una leadership a tinte rosa.

“Bisogna uscire fuori dai canoni”, tuona Jane Facciano di fronte a un’attonita signorina McGee, nella ormai iconica Rydell School, covo di servilismo e potere maschiocentrico, laboratorio sociale in cui i giovani sperimentano nuove forme di relazioni sociali, fanno i conti con i loro problemi amorosi e di identità sessuale, cercando di instaurare anche un dialogo fra vecchie e nuove generazioni. Nancy, una delle future ragazze “rosa”, in finale di stagione chiede che le fab four siano, si vestano e pensino cool, e in questo sta la cifra del recupero iconico di Grease attraverso le dieci puntate di Rise of the Pink Ladies: anticonformista e fuori dai canoni, pur se inserito perfettamente nel solco del predecessore.

E allora l’immaginario culturale del teen drama si dispiega in modo tradizionale, recuperando l’armonia del musical e riproponendo temi e situazioni tipiche del film del 1978. La saturazione non è solo legata al cromatismo brillante e al mondo pastellato degli anni Cinquanta, ma si fa cifra distintiva di una serie a tratti bulimica, che accumula una serie di vicende raccontate come fossero quadri giustapposti su cui riflettere, singole unità d’azione pregne di didascalismo attraverso cui la finzione non è celata ma esplode in modo evidente come le coreografie studiatissime.

Grease: Rise of the Pink Ladies è un tourbillon de vie riequilibrato da momenti dialogici che si configurano come spazi autonomi di pensiero in cui vanno a incasellarsi le forti identità delle quattro rivoluzionarie: Jane, leader inquieta, Cynthia, outsider castigata, Nancy, cinica artista e Olivia stratega dal forte temperamento. L’ultima a entrare nel giro è Hazel, che condivide con Richie Valdovinos, il fratello di Olivia, Jane e Nancy il senso di sradicamento nei confronti della terra promessa in cui si è trasferita, un’America nazionalista che aveva conosciuto da un anno la presidenza Eisenhower; in fin dei conti, per i repubblicani tutti d’un pezzo le donne della Rydell rimangono sempre “sgualdrine sinistroidi”, come grida il gruppo di irreprensibili maschi bianchi alle eroine fuori dalla grazia di Dio, dei padri e della famiglia tradizionale.

In Grease: Rise of the Pink Ladies si assiste, episodio dopo episodio, a una saldatura profonda tra la scuola-Edipo, precedente alla rivoluzione del ’68 e la scuola-Narciso, erede di una rivoluzione generazionale che ha modificato le asimmetrie tra genitori e figli. Tale connessione, totalmente inverosimile a metà degli anni Cinquanta, ha la forza di trasportare ogni tipo di spettatore in un universo alternativo in cui il melting pot (non solo etnico-culturale) diventa la chiave di volta per entrare in un prodotto popolare, immersivo e riflessivo, ma talmente furbo da rimanere sempre sfacciatamente cool.

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