Enzo Jannacci: l’avvenire è un buco nero in fondo al tram

 
 

L’avvento delle piattaforme streaming, ormai lo sappiamo bene, ha portato con sé il suo miele e il suo assenzio. Per i cinefili più convinti è croce e delizia, un mondo di possibilità di visione che trascina con sé innumerevoli limiti. C’è però un genere che sembra aver tutto da guadagnare nel panorama mediale delle piattaforme OTT. Si tratta del documentario (in particolare nella sua forma seriale), che gode di un vero e proprio rinascimento digitale, dopo che per anni è sopravvissuto nelle sue varianti più formulaiche in tv e nei circuiti dei festival, in qualità di prodotto artistico e autoriale.

I cataloghi dei maggiori player pullulano di docuserie, documentari e format su qualsiasi argomento, dalle grandi tematiche storiche ai più bizzarri eventi locali, dai crimini efferati alle vite degli artisti. In tutti però sembra esserci una costante ricerca del personaggio, perno centrale su cui far ruotare la narrazione e oggetto di analisi nelle sue complessità chiaroscurali. In questo i documentari incentrati sulle celebrità hanno senz’altro una marcia in più, potendo contare su protagonisti la cui persona (intesa come immagine costruita e proiettata all’esterno) è già conosciuta e amata da buona parte del pubblico. Basta dunque far leva sul personaggio che lo spettatore già conosce, talvolta sovrapponendovi una nuova e inaspettata sfumatura. Che sia il ritratto di un artista vivente o un omaggio a un grande del passato, dalla visione di questi prodotti si esce inevitabilmente con un’idea chiara del protagonista, almeno nella veste che ne restituisce l’autore.

Si rimane dunque spiazzati di fronte alla scelta di Giorgio Verdelli che, avendo tra le mani un personaggio con la P maiuscola come è stato Enzo Jannacci, prende la decisione coraggiosa di non ingabbiarlo in nessuna narrazione formulaica, in nessuno schema precostituito. Una scelta rispettosa dell’unicità del cantautore milanese, che si rispecchia perfettamente in un prodotto originale e fuori dagli schemi. Del resto Verdelli può ben dirsi conoscitore della complessità del narrare personaggi importanti del panorama musicale italiano, avendo già diretto documentari su Mia Martini, Paolo Conte, Ezio Bosso, Pino Daniele e Lucio Battisti.

Enzo Jannacci-Vengo anch’io, presentato fuori concorso a Venezia nel 2023 e poi disponibile su Netflix, sfugge a ogni categorizzazione. È un palinsesto, dalla cui superfice riaffiorano anime diverse e tuttavia in perfetta armonia tra di loro. 

La prima è quella del ritratto, che in questo caso è quasi un autoritratto. Attraverso innumerevoli filmati d’archivio, alcuni dei quali inediti, Enzo Jannacci esplode sullo schermo in tutta la sua irriverente genialità. Un raffinato uso del montaggio trascina lo spettatore in un vortice di esibizioni e interviste, in cui la voce del cantautore, nel suo canto viscerale o nella sua parlata sbiascicata, diventa subito familiare. In questo ritratto le pennellate più decise sono senz’altro quelle che schizzano la fisionomia di un’amicizia intensa e fondamentale, quella tra Enzo e Giorgio Gaber.

La seconda anima è quella dell’omaggio, sincero e commosso, di chi Jannacci l’ha conosciuto e amato. E sono tanti, dal figlio Paolo all’amico Cochi Ponzoni, da chi l’ha avuto come mentore (Diego Abantantuomo e Claudio Bisio) a chi non l’ha conosciuto ma lo considera un maestro (Elio e Francesco Gabbani). Delle venticinque voci che si sono unite per cantare le lodi de “l’unico grande genio musicale della canzone che abbiamo avuto in Italia” (Roberto Vecchioni) e “il più grande cantautore italiano” (Paolo Conte), particolarmente toccante è quella di Vasco Rossi, che ricorda quando Jannacci lo invitò in tv per cantare insieme Vita spericolata, quando ancora nessuno aveva capito il suo potenziale.

Come in ogni palinsesto poi, c’è una storia più antica, più profonda, che vibra sotto la superficie. È quella della sua Milano, che fa capolino discreta e ineluttabile in ogni foto, in ogni inflessione, in ogni risata che risuonava al Derby, in quella comicità milanese che ha fatto scuola (come ricorda Nino Frassica). Lo spettro di quella Milano, che “se perde quel suo avere il cuore in mano, diventa New York”, aleggia nella pellicola nelle spoglie più o meno mortali di un tram verde, uno di quelle vestigia antiche che si possono ancora incontrare sulle rotaie della città, quelli che emanano profumo di legno e in estate anche puzza di umanità, quelli che quando ci sei sopra ti trascinano fuori dal flusso frenetico della quotidianità, fosse anche per un secondo. 

Il tram come metafora della vita, in una canzone che Jannacci sembra aver scritto per noi, per i ventenni di oggi, chiude l’ultima anima di questo film. L’invito, a chi allora non c’era, a chi conosce le sue canzoni solo per le pubblicità della Nutella e di MD, a riscoprire un artista che parla anche e forse soprattutto all’oggi. 

“Sì perché, la bellezza dei vent'anni è poter non dare retta

A chi pretende di spiegarti l'avvenire e poi il lavoro e poi l'amore

Sì, ma qui che l'amore si fa in tre, che lavoro non ce n'è

L'avvenire è un buco nero in fondo al tram”

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