Lawmen: l’intimismo politico di Taylor Sheridan
Prodotto da Taylor Sheridan e diretto da Christina Alexandra Voros e Damian Marcano, Lawmen – La Storia di Bass Reeves è il primo racconto di una serie antologica sugli uomini di legge americani, in streaming su Paramount Plus.
L’universo, o meglio, la frontiera espansa e multiculturale del “repubblicano” Taylor Sheridan, qui solo in veste di produttore, si arricchisce di un ulteriore tassello narrativo: l’avventura esistenzialista e spirituale del primo Deputy Marshal nero tra le spoglie colline dell’Arkansas, i vergini territori indiani Seminole e le brulle contee del Texas, al fianco dell’austero giudice bianco Isaac Parker; a vestire i suoi panni è David Oyelowo, che, nell’America di fine Ottocento, cerca il proprio riscatto insieme alla moglie Jennie (Lauren E. Banks) e alla figlia Sally.
A inaugurare il nuovo universo western di Sheridan è una vicenda tratta dai primi due libri di Sidney Thompson The Bass Reeves Trilogy, nonostante lo showrunner della miniserie sia da sempre etichettato come l’alfiere di un nuovo repubblicanesimo ripulito. Contrariamente a quanto spesso si è visto sul piccolo e sul grande schermo, ad essere analizzato in modo piuttosto macroscopico è un razzismo che lascia trasparire l’emarginazione psicologica e culturale, mettendo da parte la ghettizzazione puramente biologica. Tutto ciò è rafforzato dai dialoghi in cui, ad esempio, il messaggio evangelico è utilizzato a uso e consumo dei bianchi, oppure esplode nei duelli in singolar tenzone in cui due mentalità agli antipodi si affrontano, con pistole o parole sferzanti. Al posto dell’inflazionato black washing, il “conservatore” della serialità Paramount fa irrompere sulla scena la storia di uno schiavo affrancatosi dal giogo dell’uomo bianco.
È in effetti riduttivo e inesatto attribuire un’ideologia conservatrice ad un autore complesso che ha da sempre identificato il melting pot come risorsa per la crescita dell’umanità, nonostante il limes invalicabile della frontiera e una storia dicotomica scardinata dagli squarci di ribellismo anti-sistema delle minoranze in lotta per la propria emancipazione. Il progressismo che fuoriesce da tale visione stratificata è incatenato in un ecosistema narrativo autosufficiente, strutturato secondo dinamiche che avviano un insistito e sempre affascinante refrain volto alla riproduzione di uno schema familiare nelle sue diverse storylines verticali.
In Lawmen – La Storia di Bass Reeves, la struttura circolare su cui si avvita una vicenda di riscatto e redenzione, ha nel viaggio di Bass il perno portante al di sotto del quale si articolano le sottotrame collegate alla tematica del separatismo nero. Fondata su un cristianesimo gregario in cui riecheggia l’utopistica consapevolezza del consesso politico-religioso afroamericano, la solidarietà black è uno degli elementi di coesione etno-culturale che anche in Django, serie ideata da Francesca Comencini, era rappresentata seguendo le stesse logiche e gli stessi paradigmi. Le puntate scorrono su un doppio binario: quello cattedratico, classicheggiante e citazionista della prima parte e la dimensione inquieta che porta a compimento, inizialmente, l’idea della presa di coscienza dell’ex schiavo di far parte di uno spazio sociale determinato storicamente; poi, gradualmente, l’esperienza conseguita sul campo conduce il Deputy Marshal ad accentuare le proprie riflessioni sulle reali istanze della giustizia e su quello che dovrebbe essere il proprio posto nel microcosmo selvaggio in cui a dominare è sempre e comunque una visione polarizzata, con buoni perfettamente riconoscibili e cattivi pescati tra le diverse etnie presenti sul territorio.
Se la prima e l’ultima puntata sono le più riuscite per la vis tragica che le caratterizza, nel mezzo si ha un depotenziamento della varietas narrativa, a causa soprattutto della sequela di villain episodici che riproducono sempre uno stesso canovaccio, quasi a mo’ di riempitivo. Più che epopea western, potremmo definire Lawmen - La Storia di Bass Reeves un pregevole esempio di racconto intimista e politico che sembra ripercorrere gli studi di Carlo Ginzburg sulla microstoria degli ultimi. Nel suo saggio Il Formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, l’autore si chiedeva quale fosse il posto dei dimenticati in mezzo a re, imperatori e regine, prendendo ad esempio la cronaca processuale di un mugnaio del Rinascimento. Taylor Sheridan fa lo stesso, calando nell’itinerario egemonico del West “bianco” un eroe afroamericano che porta il nome del nonno paterno e il cognome che riflette un suprematismo duro a morire.