Lo Strangolatore di Boston: true crime ed emancipazione femminile
Tratto da una storia vera, Lo Strangolatore di Boston esplora in modo essenziale e senza tanti fronzoli una vicenda giudiziaria dalle mille sfaccettature. Mescolando finzione, cronaca documentaristica e testimonianze reali, il regista Matt Ruskin ci restituisce un quadro sociale di stretta cooperazione femminile in cui prendono corpo le ossessioni di un’epoca in una Boston livida che diventa espressione di un multiforme disordine istituzionale, quasi come fossimo catapultati nel cinema hollywoodiano degli anni Settanta.
Dagli incubi del cinema complottista, il regista Matt Ruskin si sposta sul territorio più neutrale del cinema-inchiesta, mantenendo però con la filmografia della paranoia un ideale legame per la solidità e la coerenza della scrittura e per la matrice semi-documentaristica e a tratti iperrealista della messa in scena. Potremmo parlare de Lo Strangolatore di Boston come di un thriller contemporaneo ambientato negli anni Sessanta che sembra essere stato girato nel decennio successivo.
Il “biedermann”, però, è donna, e ha il pensiero strategico di Loretta McLaughlin (Keira Knightley), giornalista del Boston Record American impiegata nella rubrica di moda e costume ma desiderosa di occuparsi di cronaca nera. Dopo aver individuato una pista sicura che collega gli omicidi di un meticoloso serial killer di donne anziane, inizierà a indagare insieme alla collega Jean Cole (Carrie Coon) contro un sistema maschilista intenzionato a mantenere in piedi un intricato complotto.
Lo Strangolatore di Boston addomestica, in un lavoro di grande eleganza formale, gli incubi allucinati che erano tipici del decennio paranoico. La confezione è sofisticata, ma lo svolgimento appare viziato da un eccessivo didascalismo che rende la narrazione troppo appesantita dall’ingranaggio procedurale dell’inchiesta. Il film perde così quella fluidità che sarebbe servita a raccontare in modo meno programmatico una vicenda dai molti punti oscuri. Di certo, come si evince dal focus della storia, il true crime è usato in funzione del racconto di emancipazione femminile e non è un caso che ogni battuta e ogni sequenza rimandino all’impossibilità, da parte di tutte le donne, di rientrare in un determinato “pattern” ambientale e sociale.
La donna giornalista, secondo gli uomini delle istituzioni, può al massimo occuparsi di costume e società e in quelle rare eccezioni che la vedono al comando di una temeraria indagine, può estorcere informazioni sfruttando le sua malie seduttive. Matt Ruskin ci dimostra tutto il contrario, adottando il punto di vista di una professionista temeraria che si trova, per suo volere e per una sua precisa presa di posizione, al centro di una congiura, tra distretti polizieschi corrotti incapaci di coordinarsi per stanare il killer, i giochi manipolatori della stampa e il mai netto discrimine tra verità e menzogna che scaturisce dall’ambiguità della cronaca locale.
Ne fuoriesce un ritratto femminile forte e a tutto tondo che non strizza mai l’occhio alla quintessenza dell’eroe americano maschio (si vedano Henry Fonda nei panni dell’investigatore Bottomly ne Lo Strangolatore di Boston di Richard Fleischer o Warren Beatty in Perché un assassinio di Alan J. Pakula), né trasforma la reporter in una professionista del pericolo mascolinizzandola e inibendo il suo intuito propriamente femminile. Keira Knightley lavora di sottrazione, limitando al massimo le pose studiate e preferendo la sobrietà alla maniera, restituendo l’immagine di una donna granitica ma sempre pronta all’autoanalisi e alla gestione della relazione con l’altro, sia esso l’ennesimo uomo con la sua logica pregiudiziale o una potenziale alleata contro l’insostenibile muro di gomma del patriarcato.