Pearl: horror in technicolor

 
 

Si ha l’impressione, guardando X – A Sexy Horror Story e il suo prequel Pearl, che la poetica slasher e pruriginosa di Ti West racconti le vicissitudini di un doppelganger all’interno di cornici narrative che vanno dal 1918 (Pearl), al 1979 (X – A Sexy Horror Story) fino al 1985 (MaXXXine), anche se l’ordine di uscita dei tre film è diverso. Mia Goth è una e trina, va avanti e indietro nel tempo, si camuffa dietro tante maschere: nel primo film della trilogia è sia Maxine che Pearl, quest’ultima villain assetata di sangue giovane e nostalgica degli orgasmi adolescenziali perduti, poi ritorna giovane Pearl, contadina e aspirante ballerina nel 1918 e tra non molto sarà ancora Maxine, catapultata nel 1985. Ti West cambia le coordinate spazio-temporali, dilatando il tempo narrativo e immaginando nuove situazioni limite, attraverso logiche deliranti nei toni e nelle atmosfere ma incredibilmente razionali nella messa in scena, sgargianti come Pearl o polverose come X – A Sexy Horror Story.

In Pearl è narrata la giovinezza dell’antagonista che in X, ormai anziana, con la sua bramosia sessuale aveva fatto scempio dell’allegra brigata di giovani intenti a trasformare il loro porno amatoriale in un compiaciuto derivato dell’autorialità francese di fine anni 50. Siamo sempre nel brullo Texas, ma gli anni sono quelli bui della Grande Guerra e Pearl trascorre la sua esistenza tra l’accudimento degli animali nella fattoria e le evasioni in cui si immagina ballerina di gran successo nella Hollywood delle starlette. Si sente imprigionata in un’esistenza claustrofobica, in balia di una madre bisbetica e di un padre infermo mentre attende, controvoglia, il ritorno del marito dal fronte. Cerca di dare sfogo alle sue manie escapiste attraverso un’immaginazione malata travestita da stravaganza in technicolor.

Grazie alla fotografia di Eliot Rockett, il mondo vorticoso che ruota intorno a una delirante Dorothy si trasforma in un carosello colorato che ammicca ai luoghi magici delle fiabe e alla golden age hollywoodiana, richiamando in modo esplicito il melodramma nell’estetica, nei dialoghi, nella colonna sonora orchestrale e negli sviluppi della trama che illumina con toni caldi una classica love story tra la fanciulla e un proiezionista incontrato in città. Dov’è allora l’orrore? Si cela, come direbbe Louis Vax, tra le pieghe del “fantastico interiore”. La follia, incarnata da una perturbante e talvolta comica e clownesca Mia Goth cresce lentamente dentro, nella sua interiorità malata che la porta a divenire regina della mattanza inebriata dal sesso. La sua devianza è compiacenza di fronte al voyeurismo a cui costringe noi spettatori in un gioco metacinematografico che si serve dei generi e dei sottogeneri per costruire un esperimento d’autore alienato e allucinato. Le cinematografie proibite, ad esempio il porno elitario degli inizi che le fa scoprire il proiezionista, diventano epifanie stuzzicanti che permetteranno alla fanciulla di potenziare il suo Eros e di trasformarlo in furia omicida.

Il regista mostra una grande padronanza nell’arte della composizione horror che mescola elementi favolistici e surreali in una dimensione grottesca. L’invito a entrare in un bizzarro regno di Oz è servito: nell’incipit, con titoli di testa che ricordano i film di Douglas Sirk, una grande porta di legno si apre e mostra l’idillio campestre che fa impazzire la protagonista, tutta ammiccamenti e contorsioni facciali che bucano lo schermo. Una volta dentro, ogni logica è spazzata via dalla fantasticheria horror che si mescola a un erotismo beffardo, caricaturale e malato, in un climax che conduce a un catartico grand guignol.

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