The Future: la dolce fragilità dell’umano

 

Se il futuro avesse un volto sarebbe quello che non vediamo mai di un gatto malato. Quello randagio, ferito e mai toccato e che nel film è una presenza/assenza che sconvolge la vita dei due protagonisti umani dell’opera, Sophie e Jason: i suoi futuri e mai padroni.
Infatti, a cambiare la loro routine fatta di semplici gioie e piccole frustrazioni è proprio la prospettiva della sua adozione dal centro di rifugio.

Il tocco di surrealtà con cui la pellicola si avvia avvolge presto il susseguirsi della storia in un alone quasi magico, che non è dato solo da fatti concretamente “impossibili”, come la verbalizzazione in lingua inglese dei pensieri del felino trovatello, una maglietta che cammina o la luna che parla. Questo da solo renderebbe il film “fantastico”. Ma la vera potenza di The Future sta in qualcosa di ulteriore che è quel surrealismo che passa in primis dai momenti di più intima e per così dire “reale/istica” quotidianità, che non hanno di per sé nulla di stregato ma che tali risultano per la non logica dei protagonisti e per l’ingenuità dello sguardo innocente su un mondo – come il nostro – che invece impone una asfissiante razionalità. Il gusto del film è una (agro)dolcezza poetica che è un sapore acquisito, come l’anice o qualche liquore amaro invernale. 

Come i personaggi strampalati, algidamente meravigliosi di Kaurismaki, come i tenerissimi reietti sociali di Yerzhanov, come gli innamorati maledetti di Koberidze, quelli candidamente infantili di July si lasciano adorare al primo sguardo.  Dagli Stati Uniti, alla Finlandia, dal Kazakistan fino alla Georgia – ad accomunare questi cineasti è la poesia del vivere dei più o meno emarginati che sono in realtà protagonisti della favola strampalata della loro vita. Sono fiabe odierne, talvolta spietate, quasi sempre dolceamare e in qualche modo delicate parabole di un’umanità incasinata e ormai impossibile. Può essere un venditore di camicie con una moglie ubriacona, come in The Other Side of Hope (2017), può essere un ex criminale cinefilo, come in Yellow Cat (2020), le metamorfosi di un uomo e una donna che cambiano volto in una notte e non si riconoscono più, come in What do we see when we look at the sky (2021). O può essere un uomo che riesce a fermare il tempo con le sue mani e i suoi desideri irrealizzabili, come in The Future (2011).  

Film diversi, anni diversi, stili diversi, artisti diversi, ma che presentando la nostra specie sotto la lente del semi-assurdo inneggiano la bellezza della stessa fino quasi a ribaltarne il senso, portando a chiedersi se forse a essere insensato non sia pensare di non poterci parlare con la luna. Jason riesce a farlo, quando pur di non sentire le parole “ti abbandono” immobilizza l’istante immediatamente prima, nel mezzo di una notte ora senza rumori. 

In un altro universo, un altro tempo, nel futuro che lui ha negato, Sophie se n’è già andata e il gatto è morto. Ma nel presente, quello a cui Jason inconsolabilmente si aggrappa a costo di rimanere immobile - pur di stoppare il tapis roulant infinito dei giorni che scorrono e dei trenta che sono già passati dall’inizio della storia - nel presente di una luna che sa amare ma che non può aiutare questi sapiens masochisti e infelici, ecco in questo presente Sophie c’è ancora. È notte  - forse per sempre – e lei c’è ancora. 

E se il mondo non fosse così gentilmente indifferente (come nel titolo dell’opera di Yerzhanov del 2018)? Forse, così come il vento ammonisce la giovane georgiana di Koberidze e una semplice “roccia nel cielo” consola quello disperato di July, forse allora bisogna solo saper ascoltare e imparare ad accogliere questo domani che ci terrorizza, ma soprattutto questa umanità che ci atterrisce, amandola infine nelle sue fragilità, nei suoi difetti e nelle sue nevrosi. E sentirci così meno soli.

Miranda July appartiene alla categoria sempre più ristretta di quelli che sono ancora i grandi puri del cinema, e in questo suo delicatissimo secondo lungometraggio ci sussurra che l’uomo è un gatto randagio in cerca di amore.

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