The Plains: l’infinito ritorno del reale

 
 

Dodici mesi, un unico punto di vista. Andrew è un avvocato che ogni giorno, tra le cinque e le sei del pomeriggio, lascia il suo ufficio per immergersi nel traffico di Melbourne e fare ritorno a casa. Questa è la trama del primo lungometraggio del filmmaker australiano David Easteal. Può sembrare poco, o addirittura niente. Invece The Plains, disponibile su MUBI dal 12 aprile, suggerisce l’idea di viaggio già dal titolo (“pianure”) con un proprio inizio (Andrew sale in macchina e avvia il motore) e un conflitto (la madre anziana e in fin di vita a centinaia di chilometri), trovando una risoluzione scena per scena tramite lunghi ma eloquenti silenzi accompagnati dal rumore ovattato del traffico, telefonando alla compagna o dialogando con un giovane collega appena conosciuto (interpretato da Easteal) a cui offre un passaggio di tanto in tanto verso la città.

La peculiarità di The Plains è l’utilizzo di un unico e perpetuo punto di vista della macchina da presa: centrale, fissa, posta ad altezza d’uomo sul sedile posteriore. Non ci sono raccordi o movimenti di macchina che concedono sguardi alternativi. L’osservazione è statica e ferma, contrapposta al moto lineare e contrario di ciò che sta al di fuori. Solo poche volte e in maniera del tutto inaspettata lo sguardo si fa verticale per mezzo di un drone che decolla e offre una visione a strapiombo del nudo e crudo deserto australiano in cui Andrew è ridotto a un puntino quasi impercettibile. Gioca con i contrasti Easteal e lo fa straniando lo spettatore da quel senso di comfort appena trovato in una consuetudine che è il pendolarismo, oppure interrompendo il racconto tanto rispettosamente, come a voler lasciare in pace Andrew nel proprio silenzio, quanto bruscamente, riportandoci indietro, di nuovo all’inizio di un’altra lunga conclusione di giornata, fatta di bilanci, telefonate, ricordi, confidenze, opinioni, nonché di lunghi e sacrosanti silenzi. Ben consci che Andrew a casa ci torni, sebbene non sia dato sapere dopo quanto, non assistiamo mai all’effettiva conclusione di questo ritorno. Di fatto, una portiera aperta dall’interno non ci viene mostrata mai.

Se il cinema per definizione è da sempre movimento, qui Easteal sceglie di seguire più livelli, moltiplicando la fruizione degli eventi: uno più statico, come si diceva, che è ridotto ad una visione d’insieme del sistema di abitudini all’interno dell’auto: la radio accesa, la cintura allacciata, la marcia ingranata, la guida sulla sinistra. Un altro è dinamico, osservatore scientifico dei fenomeni oggettivi del fuori, dal classico incidente stradale ai passanti sui marciapiedi, fino al cambiamento meteorologico e stagionale. Un terzo livello è quello microscopico riportato nello specchietto retrovisore in cui gli occhi di Andrew sono riflessi: le micro-espressioni facciali ingrandite sono l’unica opportunità di conoscere fisicamente Andrew e di leggere i suoi pensieri. Il quarto e ultimo livello è quello connettivo, dato dalle relazioni instauratesi con il giovane collega, con la compagna, con l’infermiera della madre e con se stesso. Tutti e quattro i livelli, o mondi, sono in continua espansione ed evoluzione. Cosa non meno importante, col passare dei mesi ciascuno di loro apporta delle variazioni fisiche ed emozionali allo stesso Andrew.

Ibrido, quindi, tra fiction e documentario, The Plains è un film autentico, dove l’artificio è ridotto al minimo e dove il “vero” coincide con il ripetersi incessante di un pezzetto di vita. Insolito, eppure reale.

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