Those About To Die: pollice verso per l’epica serie con Anthony Hopkins
Morituri, in latino. Those About to Die, in inglese. Coloro che stanno per morire, in italiano. Era così che si presentavano i gladiatori al cospetto dell’imperatore, poco prima di dare spettacolo nelle arene più violente della Storia. Ed è così che si presenta la prima stagione di questa serie televisiva massiccia e muscolare, della durata di 10 episodi a fronte di un budget di 140 milioni di dollari e diretta (almeno nella metà del totale) dal riferimento per eccellenza del cinema catastrofico: Roland Emmerich. Le carte per suscitare interesse e aspettarsi quindi un grande spettacolo televisivo ci sono tutte. Eppure bastano pochi momenti per capire che qualcosa non torna nell’economia dello show, che ci sia una discrepanza notevole tra le premesse e la resa.
Attenzione, Those About to Die non delude da un punto di vista estetico. Che piaccia o meno lo stile improntato da Emmerich nelle prime battute, la scelta di portare in scena una Roma sicuramente stilizzata e stereotipata, ma dall’altissimo grado di testosterone (immaginate un incrocio tra l’iconografia muscolare di 300 e l’epica fumettara di Zack Snyder, vero modello di riferimento per questa serie), è ben consapevole e resta coerente con la natura del progetto dall’inizio alla fine. Si respira la polvere, il sangue, lo sporco, la carne, oltre che le trame di potere, i rapporti corrotti e le inevitabili serpi di corte. Quello che viene meno dal principio è piuttosto la solidità della struttura, l’intento narrativo dello show e, di conseguenza, quello più tematico e teorico covato al suo interno.
Those About to Die è infatti una serie talmente ingorda, ossessionata dalla prestazione fisica, dalla fascinazione per il suo aspetto estetico che finisce per trascurare le basi minime della narrazione seriale: dalla scrittura dei dialoghi alla coerenza delle sotto trame, passando per la caratterizzazione di personaggi sempre più anonimi e monocordi fino alla scelta di un casting di richiamo ma depotenziato dall’assegnazione dei ruoli (si veda il caso di Anthony Hopkins). Roma funge da corollario: tra i giochi più disparati, l’eruzione del Vesuvio e i sotterfugi politici legati alla dinastia Flavia, si intuisce ben presto quanto a Emmerich e compagnia interessi unicamente lo spettacolo. Il che, di per sé, non sarebbe nemmeno un problema se non fosse che dieci episodi sono tanti, anzi troppi, per tenere viva l’attenzione in questa maniera e che quindi il progetto, inevitabilmente, decida di virare a più riprese su canoni più consolidati che però, a quel punto, mostrano il fianco alla superficialità e alla pigrizia.
Le carte in tavola per poter iniziare una riflessione linguistica, inoltre, c’erano tutte: il passaggio dall’ampiezza dello schermo cinematografico alle dimensioni ridotte della televisione, attraverso un genere che solitamente è stato trattato con fare più artigianale e meno ricolmo di effetti digitali, poteva essere una sfida interessante agli occhi di Emmerich, per confrontarsi con precedenti illustri (Kubrick e Scott in primis) e ragionare sulla natura mortifera (guarda un po’) del peplum contemporaneo costretto a scendere a formati compromettenti. Peccato allora che ci si sia accontentati di un compitino svolto per senso del dovere e quasi del tutto privo di un’anima pulsante.