Under The Bridge: gioventù BIC, bruciata e gettata via
Ogni paese si porta appresso, impressi nella memoria collettiva, i suoi casi di cronaca più atroci, capaci di scuotere le coscienze e ingigantire le legittime paure. Se in Italia sono state realizzate serie sul caso Claps e sul massacro del Circeo, per il Canada ci hanno pensato i confinanti USA: il brutale pestaggio e successivo omicidio dell’adolescente Reena Virk, un delitto che i media possono facilmente accostare per efferatezza e eco a quello statunitense di Matthew Shepard, è stato raccontato dalla serie Hulu Under The Bridge, ideata da Quinn Shephard e basata sull’omonimo libro della scrittrice canadese Rebecca Godfrey, da luglio 2024 approdata in Italia su Disney+.
Reena Virk (Vritika Gupta) è una quattordicenne di origine indiana che vive a Saanich nella Columbia Britannica, una sera esce di casa per andare a una festa di coetanei e sparisce. Il suo corpo viene ritrovato una settimana dopo la sua scomparsa nelle acque del fiume. A indagare sulla morte di Reena è l’agente Cam Bentland (Lily Gladstone), affiancata dalla giornalista Rebecca Godfrey (Riley Keough), che da New York è tornata in Canada per completare la stesura di un suo libro sugli adolescenti difficili della provincia. E sono proprio gli adolescenti la chiave della vicenda, i fasulli amici di Reena che vivono di espedienti, piccoli furti e sognano in grande sperando di potersi unire alla criminalità organizzata statunitense.
Ed è una storia di giovani interrotti quella di Under The Bridge, talvolta raccontata dal loro punto di vista cinico, disperato e autodistruttivo, alternato allo sguardo incredulo e indagatore degli adulti che devono ricomporre un puzzle controverso di colpi bassi e continue bugie, depistaggi che hanno il solo scopo di salvarsi la pelle e farsi forti della propria crudeltà. Le presunte amiche di Reena Virk, Josephine, Dusty e Kelly, sono ragazze sole o affidate dalle famiglie ai servizi sociali perché problematiche, hanno creato una gang per non essere inferiori ai maschi della loro età che vogliono farla da padroni, si sono votate alla sorellanza e all’omertà come fossero uscite da un film di Coppola o di De Palma, sono cattive ragazze invidiose dei privilegi altrui che si accaparrano con la violenza e la prepotenza. Essere una di loro è la più potente delle forme di ribellione a cui Reena può aspirare per prendere le distanze da una famiglia religiosa che la ama moltissimo ma che la soffoca nella sua ricerca di accettazione da parte dei coetanei.
La serie, che cambia più volte direzione, prova a regalare allo spettatore una visione a 360 gradi sulla vicenda, ricorrendo a numerosi flashback che ricostruiscono gli ultimi mesi di vita della vittima e danno respiro al filone della detection a sua volta strettamente attorcigliato alle vicende personali degli adulti che un tempo, proprio da adolescenti, avevano commesso i propri errori. Non si tratta di un confronto generazionale, piuttosto di una differente presa di consapevolezza di quanto le scelte sbagliate portino a finali che non prevedono scappatoie. Nulla è edulcorato o addolcito, seppur mai davvero mostrato. È la forza dell’immaginazione della violenza subodorata, raccontata, rivissuta, riadattata a dar forza alla vicenda, ad inquietare, a spiazzare. La calma fredda di chi ammette, si compiace e mai si lascia attanagliare dal rimorso, gela lo sguardo incredulo di chi assiste dietro e oltre la quarta parete. Fino a dove può spingersi la brutalità umana, per quanto può durare la grandiosità di un atto criminale considerato eroico? Per anni, non a caso una delle colpevoli della morte di Reena Virk confessò solo vent’anni dopo, nel 2016, di aver ucciso la ragazzina.
In un sottobosco di degrado, di insoddisfazione, di abbandono, di modelli negativi, di droghe sintetiche prolifica una piccola criminalità di cui le forze dell’ordine – almeno fino al caso Virk – non hanno intenzione di occuparsi: i giovani disperati sono considerati reietti da evitare, le ragazze, definite BIC, sono usa e getta come gli accendini, e proprio il voltar loro le spalle fomenta le atrocità. “Siamo tutti colpevoli” sentenzia al processo una delle ragazze arrestate, e la verità è che quel tutti sottilmente implica anche gli adulti che hanno guardato altrove, che se ne sono andati, che se ne sono lavati le mani. La giustizia non ha nulla di consolatorio per la famiglia Virk, per Cam e per Rebecca, anzi scoperchia ulteriori vasi di Pandora che non è compito della serie esplorare. Dura, rigorosa, costruita in equilibrio tra una vasta gamma di sfumature sociali e politiche, non pende mai da un solo lato: scava e si ferma al momento giusto, garantendo un quadro esaustivo e mai tendenzioso, tipico del filone della docufiction a cui, comunque, Under The Bridge non appartiene.
A destreggiarsi tra argomenti spinosi e situazioni difficili, emerge un cast giovane pieno di talento, mentre spicca per la sfaccettata complessità del suo personaggio, in balia di imprevedibili rivelazioni, Lily Gladstone che, dopo aver staccato il biglietto d’oro firmato Scorsese, entra a tutti gli effetti nella cerchia degli attori rivelazione – si tratta dell’unico personaggio di finzione della storia, costruito da zero e dunque caricato di tutti i pesi e gli snodi dei vari filoni narrativi. Under The Bridge, dunque, si conferma, come si era pronosticato prima dell’uscita, un prodotto non indulgente, incisivo e costruito per raccontare, senza patina alcuna, la deriva delle generazioni più giovani in un mondo che li spinge alla violenza come risposta alla solitudine imposta.