Vita da Carlo 2: deconstructing Carlo

 
 

Per poter comprendere e analizzare più profondamente l’operazione seriale di Vita da Carlo, bisogna partire dall’adeguamento stilistico dell’autore e interprete romano ai parametri del prodotto da piattaforma. Tutto nasce come un’esigenza dovuta al picco pandemico di febbraio 2020, quando Si vive una volta sola (suo ultimo lavoro pensato per il grande schermo), viene bloccato e distribuito solamente a fine aprile 2021 in poche sale romane del circuito Filmauro, per poi approdare sulla piattaforma streaming Prime Video dal 13 maggio successivo.

Dopo questo travagliato lavoro, nato come sbiadito addio al suo cinema (quando invece già Benedetta follia funzionava come compendio e congedo), Carlo Verdone cede alla serialità da piattaforma e cerca di trovare un compromesso tra i topoi della propria commedia e il linguaggio da prodotto streaming. 

Nasce così Vita da Carlo (distribuito su Prime Video), una serie dalla forma ibrida che da un lato si propone come sit-com autoreferenziale, ma dall’altro cerca uno scavo più profondo in grado di superare il semplice e talvolta puerile ammiccamento tra interprete e personaggio, allargando lo sguardo alla crisi dell’attuale cinema italiano e cercando così di intraprendere un discorso auto-critico e per certi versi quasi teorico.

Per quanto riguarda la prima stagione, emergono più che altro le incertezze dell’autore nei confronti di un format a lui sconosciuto e con il quale deve a poco a poco prendere confidenza, azzardando solo qualche timida zampata all’interno di una comfort-zone decisamente troppo ovattata dagli elementi da sit-com e da fiction Tv. A distanza di un anno, con questa nuova stagione (distribuita su Paramount+) Verdone inizia a elaborare un discorso un po' meno superficiale e più ragionato, interrogandosi su un ipotetico finis africae del proprio linguaggio cinematografico e facendo i conti non solamente con la crisi del cinema italiano, ma anche (e soprattutto) con la forma del suo stesso cinema.

La dice lunga la presenza del giovane cantautore Sangiovanni (nel ruolo di sé stesso) come protagonista del film autobiografico, che Verdone vuole realizzare nella finzione della serie. Vita da Carlo 2 è consapevole nel portare avanti un discorso sull’ibridazione tra linguaggi e la crisi della forma, in cui l’effetto nostalgia risulta meno dolciastro che nella prima stagione, riuscendo, anche se solamente in parte, a stemperarlo in un cinismo autolesionista e rassegnato.

Verdone non ha saputo più essere così radicale e crudele, come nel suo trittico sordiano che comprende Sono pazzo di Iris Blond, Gallo cedrone e C’era un cinese in coma, in Vita da Carlo 2 cerca di de-verdonizzarsi (come viene esplicitato in una battuta), ma resta perlopiù prigioniero di cliché e rivolto verso un passato che non torna. I momenti più felici sono quelli che annoverano la presenza di vecchi sodali come Christian De Sica, Claudia Gerini e Fabio Traversa (il Fabris di Compagni di scuola), con il quale viene a crearsi un leitmotiv comico-patetico che raggiunge persino il grottesco.

Quello che non funziona (come nella prima stagione) sono gli elementi da sit-com, i duetti con la collaboratrice familiare Annamaria (che fanno molto Casa Vianello) e le problematiche con la figlia incinta, una dimensione da prodotto domestico che frena la decostruzione cinico-amara della maschera di Verdone. Restano così dei frammenti sparsi di verdonismo, opachi riflessi di un talento ormai al tramonto.

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