Aftersun - il rifugio della memoria

 

Il debutto al lungometraggio della regista emergente Charlotte Wells ha il profumo delle giornate di fine estate e si imprime sullo spettatore come un colpo di sole, un doloroso e al contempo dolce ricordo destinato a svanire e mai totalmente guarito

A 31 anni appena compiuti, Sophie ripercorre i ricordi del padre Calum alla stessa età durante una vacanza estiva vissuta insieme esattamente vent’anni prima sulle coste della Turchia. Lo sguardo di Sophie sul mondo è quello di una bambina alle soglie dell’adolescenza, e oscilla tra l’idealizzazione del giovane padre e la curiosità verso i ragazzi che popolano il villaggio turistico e vivono le loro fantasie estive. Con la loro videocamera, Calum e Sophie filmano spezzoni del viaggio insieme, frammenti di passato che la protagonista riunisce con la propria memoria e immaginazione nel tentativo doloroso, ma necessario, di dare un senso a ciò che non ci è dato vedere ma che percepiamo come imminente fino all’ultimo secondo della pellicola. La fotografia stessa ci restituisce l’immagine morbida e sognante di un mondo ovattato, in cui persino i colori accesi degli outfit anni ’90 sembrano assumere una qualità più dolce.

Aftersun è un film che non ha paura di adottare lo stesso ritmo ozioso della vita in vacanza per restituire il susseguirsi di giornate solo apparentemente vuote e monotone, nelle cui ombre si nasconde il disagio di un ragazzo diventato padre troppo presto, di un uomo perso nel mare della vita e la cui unica àncora è costituita dal legame con la figlia. L’incapacità di Calum di esternare il suo lato più nascosto e sofferente è in realtà un tentativo di mantenere viva l’immagine idealizzata di padre affettuoso, devoto e amorevole per la figlia, schermandola dalle amare verità di un mondo che non crede sia ancora pronta ad affrontare. Dai momenti di solitudine del padre che la Sophie adulta costruisce nella sua reminiscenza emerge un desiderio di libertà che sfocia quasi nell’annullamento, nel tentativo di scomparire tra le onde o nel buio di una notte d’estate.

La meraviglia infantile di Sophie va a pari passo con una maturità anticipata che le permette di cogliere i sentori di un tumulto interiore nel padre, ma che non è abbastanza da poterla aiutare ad attribuire un significato a quei silenzi, a quelle sensazioni. È così che rimane spettatrice di un fenomeno che non comprende a pieno e di cui non può immaginare le conseguenze. Le sue domande dirette cercano più volte di perforare la facciata di apparente normalità che Calum pone tra i due, dimostrando di conoscere le difficoltà economiche del padre e involontariamente toccando i suoi nervi scoperti. Nella memoria di Sophie, questi momenti agrodolci sono relegati a scene fugaci e passeggere, spesso filtrate dall’obiettivo di una videocamera quasi a non voler intaccare il luminoso ricordo della vacanza sopravvissuto oltre quei giorni. Le riprese amatoriali che ritmano la narrazione sono la finestra sul passato e lo sguardo meccanico che permettono a Sophie di guardare a quei momenti con la consapevolezza del dopo, ma che si fanno anche simbolo dell’incolmabile distanza tra i due protagonisti.

La storia che Wells porta sullo schermo riesce ad essere allo stesso tempo estremamente intima e universale. Lo spettatore è preso per mano e accompagnato in una riflessione sul delicato tempo dell’infanzia e sul rapporto con la figura genitoriale, in particolar modo il cambiamento della percezione del padre anni dopo gli eventi. È un tentativo di comprendere per guarire dalle brucianti ferite del passato e imparare ciò che il futuro riserva a Sophie, ora in grado di utilizzare lo stesso obiettivo del padre per osservare la realtà e ritrovare la pace di un pomeriggio a bordo piscina con l’odore del doposole sulla pelle.

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