L’America di Winning Time

 

Un miliardario scanzonato e ambizioso si alza dalla camera da letto e annuncia alle “conigliette” della Playboy Mansion che quella mattina non farà colazione perché deve andare a comprare la squadra di basket dei Los Angeles Lakers. Il miliardario si chiama Jerry Buss ed è la mente imprenditoriale da cui partono l’operazione di salvataggio di una lega sull’orlo del fallimento come l’NBA, e il progetto di sviluppare una società sportiva vincente e spettacolare, destinata a diventare una delle compagini più forti di ogni tempo, ma che da dieci anni continua a perdere tifosi e campionati. Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers, serie televisiva di dieci episodi prodotta da HBO e creata da Max Borenstein (già sceneggiatore di Godzilla, Kong: Skull Island, Godzilla vs. Kong) e Jim Hecht, si concentra sulla genesi di un progetto economico e agonistico che ha dato vita a un trionfo cestistico, evitando di ripercorrere in maniera prevedibile le tappe che hanno portato i Lakers degli anni Ottanta a essere considerate una delle migliori squadre nella storia dello sport. 

Il regista dell’episodio pilota è Adam McKay, autore di La grande scommessa (2015) e Vice – L’uomo nell’ombra (2018): due film che raccontano alcuni ingranaggi della società capitalista e della politica americana attraverso una lente d’ingrandimento surreale e a tratti demenziale, finalizzata a far emergere gli aspetti più grotteschi delle dinamiche decisionali che coinvolgono uomini di potere vulnerabili, pieni di vizi e debolezze, quasi sempre alle prese con scelte professionali al limite dell’irresponsabilità. E in questo senso, il personaggio di Jerry Buss, interpretato da John C. Reilly, sembra un parente molto vicino di Dick Cheney, la cui ascesa politica è arrivata fino a ricoprire il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti d’America ed è stata raccontata proprio da McKay in Vice – L’uomo nell’ombra.

A partire dal primo episodio, Winning Time rinuncia al ripasso cronachistico e punta a evidenziare gli ambienti e le macchine d’annata, i dettagli e gli oggetti di scena che immergono lo spettatore nel periodo storico a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. L’impronta stilistica della serie è fortemente originale, perché è girata come se le riprese venissero fatte con le telecamere dell’epoca, ottenendo un effetto visivo appositamente sporco e sgranato, che arriva persino a simulare i cambi del rullo di pellicola. Ma, al di là degli aspetti scenografici e delle scelte tecniche e registiche, il valore di Winning Time si misura con la capacità della storia di coinvolgere e appassionare. E privandosi della celebrazione agiografica dei personaggi, la serie descrive la maniacalità con cui un’associazione sportiva come l’NBA sia riuscita a rinnovarsi e a tramutarsi in un’industria d’intrattenimento controllando la propria narrativa, pianificando il percorso dei suoi protagonisti, manipolando le imprese dei giocatori per glorificarli e per fabbricare la loro icona, rendendoli anche e soprattutto un efficace prodotto commerciale. 

Leggende della pallacanestro come Kareem Abdul-Jabbar e Magic Johnson, i principali fautori del decennio dello Showtime - il soprannome dato allo stile di gioco dei Lakers caratterizzato dalla velocità delle azioni d’attacco e dalla loro spettacolarità – appaiono innanzitutto per le loro fragilità individuali: il primo viene presentato come un leader carismatico ed esperto ma anche nervoso e irascibile; il secondo, invece, è un giovane professionista già vanitoso, pieno di sé e particolarmente donnaiolo. Il loro rapporto è uno degli aspetti narrativi più interessanti della serie, e allo stesso modo risulta affascinante la loro evoluzione individuale, sollecitata da allenatori, dirigenti e agenti sportivi, per smussare le spigolosità del temperamento e apparire a livello mediatico come sportivi invulnerabili, collaborativi e vincenti. 

Ma le caratterizzazioni più riuscite di Winning Time risiedono nel racconto dei quattro allenatori che si sono avvicendati sulla panchina dei Los Angeles Lakers tra il 1979 e il 1981: il primo, Jerry West, interpretato da Jason Clarke, decide di ritirarsi poco dopo l’acquisizione della squadra da parte di Jerry Buss, per l’eccessiva pressione a cui teme di essere sottoposto; il secondo, Jack McKinney, interpretato da Tracy Letts, sembra il più adatto per ricoprire il ruolo, ma rimane vittima di un gravissimo incidente in bicicletta che lo costringe a terminare dopo pochi mesi l’esperienza. La fortunata epopea dei Lakers ha inizio così con Paul Westhead e Pat Riley, rispettivamente interpretati da due attori dalle eccezionali sfumature tragicomiche come Jason Segel e Adrien Brody: entrambi vengono presentati come una vera e propria coppia di ripiego, due rincalzi insicuri delle proprie capacità di gestione, che si trovano per pura fatalità di fronte alla più inaspettata occasione della loro carriera. Quella di poter allenare una squadra di fuoriclasse, che li porterà nel 1980 a vincere il loro primo titolo NBA, dopo le finali giocate contro i Philadelphia 76ers.

Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers è stata accolta in maniera controversa, innanzitutto da alcuni dei diretti interessati: Kareem Abdul-Jabbar l’ha definita «deliberatamente disonesta e tristemente monotona», mentre l’ex allenatore Jerry West ha minacciato di appellarsi alla Corte Suprema se HBO non avesse preso la decisione di ritirarla dal mercato, dopo aver accusato i creatori della serie di aver ritratto i protagonisti come dei cartoni animati. La risposta migliore alle accuse è arrivata da Jeff Pearlman, lo scrittore del libro Showtime: Magic, Kareem, Riley, and the Los Angeles Lakers Dynasty of the 1980s, su cui Max Borenstein e Jim Hecht si sono basati per scrivere la sceneggiatura: «Attaccare Winning Time fa sembrare meschini e incapaci di accettare una battuta. La serie è fantastica e ha ricevuto ottime critiche, anche perché i momenti negativi dei personaggi sono pieni di affetto, umorismo e amore per la storia dei Los Angeles Lakers». 


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