The Pale Blue Eye

 

Tratto dall'omonimo romanzo del 2006 scritto da Louis Bayard, The Pale Blue Eye – I delitti di West Point (Netflix) – da qui in avanti solo The Pale Blue Eye – è il nuovo tassello all’interno della filmografia di Scott Cooper. Quello del regista è un profilo decisamente coerente e omogeneo, sia da un punto di vista tematico che qualitativo. Se infatti il cineasta statunitense preferisce schivare qualsivoglia etichetta o definizione per rifugiarsi “semplicemente” all’interno di storie guidate da protagonisti che sembrano destinati all’autodistruzione all’interno di una spirale psicologica sempre più tetra e profonda che loro stessi contribuiscono a tracciare, è anche vero che risulta difficile restare pienamente appagati al termine della visione di un film siglato dall’autore. Attenzione, con questo non si vuole sminuire il valore e il talento di uno sguardo cinematografico consapevole e solido.

The Pale Blue Eye è un film di buona fattura per quelli che sono i suoi scopi. Cooper sa bene dove posizionare la macchina da presa, come muoverla (lentissimi, a tratti impercettibili, ma inesorabili carelli in avanti diventano il marchio di fabbrica di un film che con passo tutt’altro che spedito prova a spingere i suoi personaggi verso la verità) e cosa richiedere dagli interpreti e dalla direzione della fotografia. Il torbido, il lugubre e le tinte, queste sì un po’ scontate e banali, ammiccanti alla letteratura di Edgar Allan Poe fanno da cornice a un nuovo (ennesimo?) gioco di specchi in cui due protagonisti si completeranno vicendevolmente, ognuno con le sue ferite, le sue ossessioni, per provare a venire a capo di un misterioso caso in cui si stenta letteralmente a credere a quel che accade.

Proprio su questo aspetto, però, risiede l’elemento più interessante del film. Non nella collaborazione tra il detective Landor (Christian Bale ormai giunto alla terza collaborazione con il regista dopo Il fuoco della vendetta – Out of the Furnace [2013] e Hostiles – Ostili [2017]) e il futuro scrittore Poe (un sorprendente Harry Melling), non nell’opposizione tra il singolo e il collettivo di riferimento (l’accademia militare di West Point sembra ostacolare più che voler agevolare lo svolgimento delle indagini) ma il ruolo attivo che ognuno di noi intercorre con le immagini che gli si pongono innanzi. In fin dei conti, empatizzare con un film è una questione di Fede. Il cinema mente costantemente, eppure il pubblico tende a riversare in quella menzogna tutte le sue emozioni e pulsioni. Laddove la scienza è costretta ad arrendersi, ecco entrare in gioco la magia, la religione, l’irrazionale.

Lo sanno i personaggi di The Pale Blue Eye, lo sa anche Scott Cooper che quindi preferisce rinunciare a provare a costruire un immaginario contemporaneo labirintico e frammentato, come è tipico per chi lavora nell’audiovisivo degli ultimi anni, facendosi invece da parte e osservando con fare rispettoso e disincantato il progredire di una narrazione attempata e schiacciata dalla sua stessa stazza. È un film pesante The Pale Blue Eye, non solo per il suo minutaggio e il suo ritmo non proprio frizzanti, ma anche perché progredisce senza una vera e propria spinta emotiva, senza un cuore pulsante in grado di donargli linfa vitale. Proprio come la scia di omicidi che minacciano il racconto, si tratta di un cadavere privo del suo organo principale, un film tutto forma e poca sostanza, freddo, anzi, freddissimo come i paesaggi che fanno da cornice alle indagini.

Simone Soranna

Simone Soranna, classe 1991, laureato in Lettere moderne. È caporedattore del portale LongTake.it, scrive per la rivista Cineforum, lavora come corrispondente dai maggiori festival internazionali (Cannes, Venezia, Berlino) per Fred Film Radio e ha collaborato come anchorman per SkyCinema.

Indietro
Indietro

L’America di Winning Time

Avanti
Avanti

La Bella Stagione