Django - Uno sguardo contemporaneo agli spaghetti western

 

Creata e scritta da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, Django è una miniserie Sky Original che fa rivivere il western drama destrutturando l’epos italico che Sergio Corbucci aveva cantato al suon di “una componente reazionaria derivata”.

Sotto la direzione artistica di Francesca Comencini, regista anche dei primi quattro episodi, Django trasforma la no man’s land squassata dai fascisti in un’utopia progressista al passo coi tempi, modulata seguendo svolte narrative che mettono a fuoco conflitti familiari e faide tra bande rivali, ma lasciando fuori campo le pozze che sporcavano sistematicamente i personaggi corbucciani e seguendoli senza i veloci movimenti di macchina che rendevano parossistiche le guerre intestine; persino gli scontri a fuoco appaiono domati, così come le dispute individuali reinterpretate in chiave enfatica e con un lento ritmo di montaggio.  

Tutto ciò che era tipico degli spaghetti western, dall’ambientazione alla rappresentazione del contesto retrivo, oltre che dagli elementi più smaccatamente ripresi dai film americani (si riveda Minnesota Clay di Corbucci), viene depotenziato in una narrazione che, attraverso una lenta costruzione emotiva dei singoli personaggi, indebolisce l’estetica sanguinaria lasciando la sola cornice a emblema del genere di riferimento nonostante la volontà, a tratti evidente, di trarre ispirazione da Peckinpah. Lo spazio è liquido, ogni diverso è un nemico, ma c’è chi ha la profetica consapevolezza del melting pot come superamento dell’alterità nel continente americano. 

In Django ogni azione è pensata, ogni slancio emozionale è bloccato in didascalie affettive in cui ogni personaggio, compreso l’uomo con la bara, ricalca stereotipi cinefili colmi di retorica e pochi squarci di violenza selvaggia; di tagliente rimane l’ambientazione pietrosa e acuminata, ricreata dallo scenografo Paki Meduri all’interno di un vulcano spento in Romania. Qui sorge New Babylon, cittadella costruita con martello e chiodi da John Ellis per accogliere diseredati di ogni stirpe, mentre più a sud la città di Elmdale è la roccaforte puritana in cui comanda Elizabeth, giustiziera cristiana che ha giurato vendetta contro la comunità guidata da John Ellis. Tra i due mondi in collisione capita Django (Matthias Schoenaerts), lo straniero, ex ufficiale sudista deciso a ritrovare la figlia Sarah, unica superstite dopo il massacro della famiglia. 

All’interno di una larga fascia di serialità che rispolvera il western secondo il canone accademico (si vedano i vari spinoff di Yellowstone su Paramount plus), Django si muove in una direzione di piena rivisitazione del genere, strizzando l’occhio al melò e a un certo realismo politico. L’operazione attualizza un immaginario denso e pastoso in cui scompaiono i cavalieri solitari in nome una coralità d’intreccio che confonde i destini individuali e le motivazioni alla base delle scelte intraprese. Persino la difesa armata che John Ellis organizza per il suo popolo e il diniego espresso dai figli e da Sarah sulle spese belliche sembra ricollegarsi al triste dibattito contemporaneo sulle armi da inviare o meno all’Ucraina. La serie è quindi un ideale ponte che collega il western alla nostra visione della società, sfumato e complesso nelle sue svolte narrative, ma anche statico nella modulazione del pathos.  

Puntata dopo puntata scopriamo che Django in fondo non è che uno fra tanti e in effetti, con l’archetipo dello straniero completamente ridimensionato, non funge più come unico e solo elemento perturbante dell’ordine, ma diventa il portatore di una tragedia macbethiana che si evolve lentamente, in una narrazione che mette i figli contro i padri e riallaccia attraverso i flashback un passato tumultuoso e fitto di intrighi familiari. 

Se Django non è più Django, la vera rottura con l’universo dello spaghetti western è la valorizzazione del personaggio femminile: Sarah (Lisa Vicari), la figlia dell’antieroe, è devota a un mondo multiculturale e progressista e, dall’altra parte della barricata, Elizabeth (Noomi Rapace), colonna portante di un Cristianesimo patriarcale, non fa che ribadire la propria estraneità all’integrazione del diverso.

Lo sguardo politico di Django annienta il conformismo del genere e vi sostituisce una quête che fonde l’impeto del ribellismo sociale allo slancio nostalgico del dramma in una wilderness ideologicamente orientata. Attualissima e in sintonia con la nostra epoca, la serie mette insieme una serie di connessioni che, parafrasando Musil ne L’Indecente e il malato nell’arte, non sono altro che rappresentazioni di relazioni “con cento altre cose” che, per quanto malate o semplicemente fuori canone, sono sempre scoperte che gettano su di noi un orizzonte di pensiero meritevole di essere analizzato.  

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