I’m a Virgo: la commedia surreale anti-capitalista

 
 

A cinque anni dal grande successo del suo primo film Sorry to Bother You, il regista, rapper e attivista Boots Riley torna alle atmosfere afrosurreali nella serie Prime Video I’m a Virgo, un racconto di formazione in chiave satirico-politica incentrata su Cootie, adolescente afroamericano di quasi quattro metri d’altezza alla scoperta della realtà statunitense tra esperienze personali e impegno sociale.

Riprendendo lo stile del suo lungometraggio, il nuovo lavoro dell’autore di Chicago ribadisce lo stile narrativo, caro anche a Jordan Peele, per riflettere attraverso il fantastico, iperboli, metafore e allusioni sulla condizione della popolazione di colore in America. Una situazione talmente assurda che per essere raccontata deve per forza superare il reale, diventando appunto “surreale”: una sfumatura intellettuale che apre a una critica ben più aspra ed efficace al suo soggetto.

Se l’incisività dell’esordio in parte si stempera nella dilatazione narrativa della serie, I’m a Virgo non perde comunque quel tono di mordace osservazione del contesto contemporaneo che fa dell’opera un testo ben più ampio a profondo di molti prodotti contemporanei. Tra Jonathan Swift e Michel Gondry, Riley gioca – come ha affermato in un tweet – con “prospettiva forzata, set a mezza scala, marionette, lavori a filo, miniature e altre rozze illusioni ottiche”, destreggiandosi abilmente tra i diversi generi di riferimento. Fantascienza, teen drama, commedia e cinecomics vengono riletti e rielaborati, minandone il canonico assetto narrativo e aggiungendovi spiazzanti prospettive e punti di vista alternativi che vengono a scardinare i topoi di riferimento.

È evidente che nella sproporzione fisica del protagonista, tenuto nascosto dagli zii adottivi in un capannone nel giardino di casa per proteggerlo dal mondo esterno, c’è tutto il dramma di un adolescente nero il cui potenziale inesprimibile nella società bianca nazionale diventa un handicap mostruoso, gigantesco appunto. Le qualità e le doti di Cootie non sono adatte al contesto in cui vive. Tutto è smisuratamente piccolo per lui, gli va stretto e per cercare di farne parte deve chinarsi, piegarsi, portarsi per quanto possibile all’altezza degli altri, sminuendosi. Esaltato e allo stesso tempo vituperato dal mondo esterno, il protagonista è così oggetto di continui giudizi e pregiudizi.

La strana setta che lo riconosce come il prescelto portatore di una fantomatica verità illuminante o l’agente pubblicitario che lo fa scritturare come sponsor per l’azienda di moda Asphalt Jungle che sfrutta il misto di curiosità e paura suscitato dalla sua alterità sono la manifestazione del monito di zia LaFrancine “le persone cercheranno di capire come usarti, e quando non potranno più usarti, cercheranno di sbarazzarsi di te”. Un destino comune alle talentuose stelle nere dello sport, della musica e dell’intrattenimento, da sempre soggette a uno sfruttamento intensivo delle proprie qualità per finire scartati e dimenticati appena la loro parabola comincia a discendere.

Come accade a Cootie quando, sviluppata una coscienza etnica e sociale dopo la morte dell’amico Scat perché non provvisto di assicurazione sanitaria, organizza un’azione di protesta violenta che lo porterà a inimicarsi The Hero, egocentrico magnate dei fumetti autoproclamatosi supervigilante difensore della legge e dell’ordine bianchi. Caratterizzato da una mentalità ottusa e superficiale, l’uomo finisce per identificare aprioristicamente i neri e in particolare il gigantesco protagonista come minacce da sopprimere prima che possano effettivamente manifestarsi: è questa una metafora della grave questione della violenza della polizia statunitense nei confronti delle minoranza etniche, in particolare afroamericani e latini.

Con ironia e leggerezza Riley sferra qui il suo colpo più incisivo alla realtà nazionale e alla sua cultura. The Hero non è soltanto la rappresentazione del delirio di onnipotenza del sistema bianco, ma è anche il frutto stesso della sua mentalità. La critica al capitalismo contemporaneo che sottilmente unisce tutti i sette episodi della serie si palesa con forza nel finale quando The Hero, sconfitto da Cootie, è costretto ad aprire gli occhi su di sé e il suo operato in un viaggio nella coscienza americana al fianco della militante Jones, che gli rivela il suo ruolo nei meccanismi della contesto nazionale. Una società che ha bisogno di disoccupazione, povertà e violenza per legittimare il proprio comportamento e l’ingiusto sistema che non favorisce l’uguaglianza, ma privilegia solo una parte sfruttando la legge a proprio vantaggio e alimentando un favorevole pensiero comune attraverso la cultura di massa (gli orribili Bing-Bang Burger, l’insulso ma ipnotico cartone animato Parking Tickets, spot, tv-spazzatura e non ultimi fumetti e film di supereroi). “Sei uno strumento che aiuta il capitalismo a funzionare senza intoppi” afferma la ragazza rivolgendosi a The Hero, mostrandogli una verità difficilmente sostenibile. Una specie di cancro difficile da estirpare e che facilmente dilaga in ognuno, come sottende la ferita di Cootie che sul finale di I’m a Virgo è diventata piaga virulenta, a indicare un’innocenza perduta le cui conseguenze potrebbero essere oggetto di un’auspicata seconda stagione.

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