Il mostro delle Ardenne - Lotta iniqua tra disumanità e giustizia

 

Il mostro o i mostri? La docu-serie in cinque episodi diretta da  Michelle Fines e Christophe Astruc -  disponibile su Netflix - tenta di rispondere a questa domanda, attraverso un resoconto di una violenza durata più di vent’anni. Michel Fourniret e Monique Olivier si sono conosciuti senza equivoci: la loro corrispondenza è iniziata quando lui era in carcere per violenza sessuale. Nel 1987 poi, quando viene liberato, i due vanno a vivere insieme e sanciscono il loro legame (criminale) appropriandosi dei lingotti d’oro nascosti nel cimitero di Fontenay-en-Parisis da un gruppo di rapinatori. È un ex compagno di cella di Michel a indicare il tesoro, e a mettere loro in contatto con la sua fidanzata: la coppia di mostri uccide la donna e, ottenuti i soldi, compra il castello di Sautou, alle Ardenne. E sarà proprio il castello, con i suoi chilometri e chilometri di terreno, ad essere protagonista di una delle vicende più agghiaccianti degli ultimi decenni. 

È una storia dell’orrore quella dei due coniugi Fourniret, ma di un orrore reale, lucido, pianificato. Un “male normale”, che ha affascinato entrambi ed è stato interiorizzato nella loro routine. Non ci sono spiegazioni plausibili né traumi che possano legittimare (solo l’utilizzo di questo termine è agghiacciante) le atrocità che sono state commesse. Il Mostro delle Ardenne (Netflix) è il racconto di una violenza perpetrata da due persone, complementari tra loro. Lui agisce, lei pianifica. O il contrario. All’inizio, infatti, la polizia si focalizza su Michel, colpevole di aver plagiato la moglie che, reduce da un passato di abusi nel suo precedente matrimonio, ne era diventata dipendente. Monique lo temeva, così come temeva tutti. Sin dalle prime testimonianze, infatti, viene descritta come una donna “costantemente fissa sui suoi piedi”, con lo sguardo mai rivolto al suo interlocutore o a chiunque altro, seduta su una sedia senza occuparla tutta; priva di tratti fisici particolari, con lunghi capelli neri, un viso alquanto apatico, un aspetto da strega. Una donna sottomessa e timorosa, che per paura che il marito potesse farle del male osservava - e ascoltava - inerme. È questa l’analisi che viene (inizialmente) condotta su di lei, una casalinga insospettabile, vittima di un ennesimo uomo violento. 

Monique, in realtà, si nasconde, adagiandosi sugli stereotipi che vedono l’uomo dominante e la donna succube. Esercitava un dominio, o forse era la musa del suo assassino, un uomo che le ha permesso di esistere. In realtà, non è mai stata influenzabile: insieme al suo sguardo, ha sempre nascosto anche la sua intelligenza, che nei test a cui è stata sottoposta, è risultata persino sopra la media. Monique adescava le ragazze, servendosi dell’alibi di essere donna (una ragazza sale certamente con più fiducia su un’auto guidata da una donna rispetto ad una guidata da un uomo) e dell’avere un figlio, sfruttando un altro stereotipo, quello della madre di famiglia che non potrebbe mai fare del male a nessuno. Invece Monique (la ripetizione del nome la rende ancora più protagonista) partecipava attivamente, aiutando - o meglio preparando - il suo compagno quando ne aveva bisogno. Le ragazze sono state rapite, seviziate, sedate e abusate sessualmente: chi avrebbe potuto accusare lei in quanto madre? Chi dei due, allora, ha trovato il proprio doppio? 

Prodotti di questo tipo ci rimandano inevitabilmente al fenomeno Dahmer - altro prodotto Netflix - espressione di quel fascino (morboso e pericolosissimo) del voyeurismo, che può sfociare anche nell’emulazione e nell’esaltazione. È proprio la possibilità di essere esaltata, raccontata e temuta ad avere attirato Monique, una donna enigmatica, che ha sfruttato l’ombra del marito, e ha mantenuto la sua promessa di restargli fedele. Michel è morto nel 2021, a settantanove anni, lasciando irrisolti alcuni casi, come quello di Estelle, soprannominata “la piccola”, di appena nove anni. 

È giusto chiedersi (ancora) se è possibile opporre la giustizia alla disumanità.

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