Moneyboys: romantico disincanto

 

Presentato nella sezione di Un Certain Regard di Cannes 2021  e diretto dal regista viennese di origini taiwanesi C. B. YI, Moneyboys arriva su Mubi, dove si potrà guardare per tutto il mese di Aprile.

Il primo lungometraggio del regista allievo di Michael Haneke è un melò spietato, ritratto della solitudine metropolitana di Taipei e di una nuova – ma in realtà sempiterna -  generazione di giovani sperduti in cerca di sé

La camera segue gelidamente ma in qualche modo senza distacco il giovane e dannatamente stupendo protagonista, Fei, che del suo corpo fresco ed efebico inizia a fare un lavoro, vendendolo a uomini spesso più vecchi. La sua prostituzione ben presto si configura come un pretesto, l’amara ricerca di uno scopo, di una prospettiva, di una visione nuova su una vita sempre più difficile – resa ancora più sofferente dal distacco con la famiglia, tra chi muore e si può solo ricordare e chi si vergogna di lui e lo abbandona.

 Il suo è uno spirito combattuto, ribelle, nascosto dietro un fare docile e pacato. È lo spirito instancabilmente romantico di un disfattista che non smette di credere nell’amore e nella cura per gli altri. Amori impossibili, amicizie multiformi che si trasformano in un calore travagliato che prende vita tra luci al neon, karaoke, camere da letto sudice o tirate a lucido, locali notturni e mazzi di banconote. Un amore che, nella baudeleriana solitudine metropolitana, prende il sapore di un certo cinema di Tsai Ming Liang a di Wong Kar-Wai, registi che hanno saputo costruire la loro visione intorno a momenti rarefatti, perenni inseguimenti, frustrazioni alimentate da passioni soffocate e da dolori taciuti. 

Il cinema dei solitari, con i suoi eroi stanchi ma sempre in giro,  accompagnati da musiche indimenticabili e da inquadrature (im)perfette. Ecco nel seguire gli inseguimenti di Fei, C. B. Yi ricorda una certa atmosfera degli autori citati – tra cui va ricordata anche la vena poetica di Hou Hsiao Hsien - pur senza raggiungere le vette emotive e stilistiche dei maestri della new wave taiwanese e dell’inarrivabile cineasta di Hong Kong.

Colora queste soluzioni con un tocco di coralità che invece non può non ricordare Kore’eda. Le cene insieme intorno a un tavolo, a mangiare dallo stesso piatto, a parlare, a condividere. Con l’autore giapponese, il regista ha in comune un gusto per le scene di gruppo, che racconta con sincerità, e per le dinamiche famigliari, delle famiglie biologiche così come di quelle che ci scegliamo, a volte ancora più importanti.

Parlando chiaramente, il film non ha la portata del cinema a cui guarda, forse per una trama un po’ slabbrata, forse per momenti forzati o quasi costruiti a tavolino, forse perché poteva essere un gran film ma non lo è stato.

Ciò non toglie che è un film potente, che non lascia indifferenti e non solo per i contenuti. È forse una di quelle opere che si apprezza maggiormente dopo che la si è vissuta, dopo averla lasciata decantare, quando il ricordo di alcuni passaggi meno riusciti si assopisce e rimane un sentire emotivo più generale, anche dato da alcune scene iconiche che sicuramente non svaniranno facilmente. Le risate in motorino, una finestra da cui si può vedere la pioggia metropolitana, una canzone romantica cantata insieme quasi per scherzare ma poi per davvero, e infine un ballo in discoteca. 

Quello sul cui fermo immagine si chiude il film: sono due ragazzi, giovani, sbarbati, simili, forse uguali o forse completamente diversi ma in cerca delle stesse cose. Il loro posto nel mondo e qualcuno con cui condividerlo.

Un film da vedere.

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