One Piece: operazione nostalgia

 
 

Altro che Tom Cruise, la missione qui sì che era davvero impossibile. One Piece, manga inaugurato nel 1997 da Eiichirō Oda, è uno dei prodotti pop più amati di sempre. Capace di infrangere qualsivoglia record legato sia alle pagine a fumetti che alla conseguente serie animata, è diventato presto un vero e proprio franchise con spin-off cinematografici, carte da collezione, videogames e tutto il paratesto tanto caro alla pop culture. Netflix non poteva attendere ancora a lungo ed ecco ora sbarcare sulla piattaforma la serie in live action omonima. Si tratta di una sfida notevole e ambiziosa, viste le premesse numeriche e di affetto che stanno alla base del progetto. 

Eppure, se con la matematica difficilmente si sbaglia (la fanbase era talmente ampia e l’attesa per questi episodi così spasmodica che, da un punto di vista di marketing e investimento, il prodotto è ovviamente schizzato in cima alle classifiche mondiali per numero di ore visionate), al cuor non si comanda. Un progetto simile, proprio per via della sua stessa natura, è destinato a scontentare buona parte del pubblico. C’è chi grida alla lesa maestà, chi non approva la libertà narrativa che ci si è concessi, chi non riesce a immedesimarsi in un immaginario cartoonesco e fantasioso che, nella sua trasposizione in carne e ossa, perde tutto il suo fascino.

Lasciando da parte il personale giudizio di ognuno sulla questione (chi scrive è nato e cresciuto con il manga omonimo, un punto di riferimento troppo importante, e del tutto soggettivo, per gli anni formativi), è utile interrogarsi sull’estetica sprigionata dalle immagini concepite per questo lavoro e da come la serie si inserisca perfettamente (nel bene e/o nel male) nella produzione contemporanea. Pensiamoci. Non c’è nulla di diverso da quanto attuato da casa Disney e altre major negli ultimi anni: un’operazione di grande richiamo popolare in grado di far leva sulla malinconia tanto cara al consumismo odierno, che non vuole minimamente inventare nulla di nuovo ma “semplicemente” aggiornare l’immaginario al gusto virale e informatico delle immagini contemporanee

Così come stona il fotorealismo di Simba & co. intenti a cantare Hakuna Matata ne Il re leone di Jon Favreau, stonano del tutto i costumi dei pirati di One Piece, al punto da far pensare diverse volte di trovarci di fronte a una parata di cosplayers invece che a interpreti con i quali dovremmo empatizzare. Eppure la serie creata da Matt Owens e Steven Maeda, nonostante nutra questi problemi e altri di natura più generica (oggettivamente, non è un buon prodotto televisivo) funziona nella sua semplicità, cattura lo sguardo di milioni di appassionati ormai abituati a consumare immagini piatte, rapidissime, bidimensionali ma al tempo stesso colorate, vivaci, pillolabili in tanti reel o TikTok in grado di lasciare il segno. Dalle tavole di Oda ai fotogrammi di Netflix resta invariato lo spirito di avventura e di sincera passione che accomuna i protagonisti. Cambia invece totalmente lo studio dell’inquadratura, il ritmo e il dinamismo del montaggio, insomma la forma. Eppure dopo sole due settimane dalla messa online, visto il successo, la seconda stagione è stata confermata. Segno del fatto che la missione impossibile di cui si faceva cenno in apertura sia stata vinta senza esitazioni. All’arrembaggio. 

Simone Soranna

Simone Soranna, classe 1991, laureato in Lettere moderne. È caporedattore del portale LongTake.it, scrive per la rivista Cineforum, lavora come corrispondente dai maggiori festival internazionali (Cannes, Venezia, Berlino) per Fred Film Radio e ha collaborato come anchorman per SkyCinema.

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