L’Atlanta di Glover tra sogno e incubo

 

Per l’approccio surreale e l’immediata connessione con lo spirito del tempo presente di Atlanta, questo pezzo dovrebbe essere scritto da un’intelligenza artificiale. Dovrebbe contenere digressioni infinite e spunti visionari, “supermercati della mente” e set labirintici. Dovrebbe saltare da un paragrafo all’altro e divagare, sperimentare, fissare un punto e girarci attorno incessantemente.

È quello che fa Atlanta, serie creata da Donald Glover e giunta, a sei anni dal suo esordio, alla quarta e ultima stagione . Stabilisce un punto, un perno, e ci gira attorno, definisce uno spazio di interesse e crea estensioni di ogni tipo. Parte dalla scena musicale di Atlanta, da Paper Boi e dal cugino Earn improvvisatosi suo manager, da Darius e Van, per poi ampliarne lo sguardo, puntata dopo puntata, sulla città e sulle scene musicali, sull’America e sulle industrie culturali, fino ad arrivare all’Europa (terza stagione) e ai consigli d’amministrazione Disney (quarta stagione).

Un’espansione frammentata e fatta di digressioni, per una serie che adotta un approccio quasi antologico, con uno sviluppo orizzontale minimo (la progressiva celebrità dei protagonisti), che si fa “palinsesto” e contenitore di visioni sul presente. Un compendio surreale ai tempi della cultura convergente sullo stato dell’essere occidentali, americani, afroamericani.

Dal primo episodio ad oggi – anni movimentati, da Trump a George FloydGlover ha messo in scena spunti, storie, leggende e cronache sulla comunità afroamericana, dal razzismo sistemico al senso di colpa bianco, dall’anti-razzismo come brand (e come piano “debellato entro il 2024”) alla blackness come unità di misura culturale inclusiva ed esclusiva (l’episodio Finto nero ricco, finto nero povero), passando per dissacranti visioni sulla produzione (l’episodio Etica del lavoro) e sulla rappresentabilità della cultura nera americana (l’episodio L’imbranato della porta accanto).

Emulando i media contemporanei, negli anni Atlanta ha assunto varie forme: il talk show, il documentario, la sit com, anche qui partendo da un punto ed espandendosi. Prima indugia sugli smartphone, sulle televisioni, emula i video di YouTube, i programmi televisivi (l’episodio Il talk show). Nelle prime stagioni le case dei protagonisti sono semivuote ed è dagli schermi che esce l’Atlanta che vivono, quella che questa serie sembra voler raccontare. Mentre con il passare delle stagioni, l’America raccontata in questa serie, quella disintermediata ed espansa, fuoriesce e straborda straniando i protagonisti, disambientandoli e continuando a guardarli cavalcare precariamente quel caos che li porta alla fine di ogni episodio sempre stremati, distrutti, spaesati.

Perché alla fine dei conti Atlanta abita da sempre – e in questi anni lo ha saputo fare con ambizione – quello spazio di connessione che intercorre tra l’estremamente attuale e l’infinitamente surreale. Gioca in quella dimensione di incontro che è la stessa del rapporto tra media e società. E anche se l’ultimo episodio pone il dubbio che sia sogno o realtà, per tutta la durata della serie è in verità più opportuno chiedersi se ci si trovi davanti a un sogno o a un incubo. Ce lo chiediamo puntata dopo puntata. Come se fosse la chiave che Glover ci suggerisce per interpretare il presente. Continuiamo a chiedercelo ancora. Anche dopo l’ultimo episodio. Anche se rimaniamo su Disney + e giriamo su Black Panther: Wakanda Forever o su In viaggio con Pippo… “il film più nero di tutti i tempi”.

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