“Halston” e l’importanza del brand

 

Halston, l’ennesima miniserie di successo prodotta da Ryan Murphy e disponibile su Netflix da maggio 2021, ci attira e ci fidelizza per le 5 puntate proprio come farebbe un brand della moda: diverte grazie ai dialoghi brillanti, è diretta con senso del ritmo da un veterano delle serie TV come Daniel Minahan ed è proprio bella da guardare con quegli abiti leggendari e quella ricostruzione iconograficamente così accurata degli anni 70. Soprattutto, ha un cast di ottimo livello, guidato da un Ewan McGregor in stato di grazia nel ruolo dello stilista che rivoluzionò la moda americana, dal pillbox hat indossato da Jackie Kennedy per l’inaugurazione del marito agli abiti che contribuirono all'immagine divistica di Liza Minnelli, Elizabeth Taylor, Lauren Bacall e Gene Tierney, per limitarsi ai nomi più conosciuti. Tuttavia, alla fine dei cinque episodi, rimane una sensazione di non detto: come se il brand e il glamour possano continuare a vivere solo rimanendo in superficie, senza essere scalfiti dalla rappresentazione di possibili significati politici collettivi per la comunità LGBTQ+.

Negli stessi materiali di lancio della serie, come il trailer o il dietro le quinte “Becoming Halston”, che documenta il lavoro attoriale di McGregor per interpretare lo stilista, si evidenzia che la vita di Halston è stata una costante performance, un continuo reinventarsi a livello artistico e commerciale che, una volta guadagnata la fama di stilista delle star, lo ha portato, sorprendentemente, a creare linee a costi contenuti messe in vendita nei negozi della catena JCP. Questo incessante mettersi in scena arriva anche a toccare la sfera dell’identità: la caratteristica voce di Halston viene citata in una scena come la prova che lo stilista, effettivamente originario dell’Indiana, stesse costantemente recitando e imitando qualcun altro.

Sono stato anche io un escluso tutta la vita fino a quando un giorno ho cominciato a fottermene”, esclama Halston e la serie non è certo timida nell’affrontare l’omosessualità del couturier, la sua predilezione per gli escort ben dotati, la dipendenza dalla droga e le trasgressioni alla moda allo Studio 54. Eppure, ancora una volta, la serie rimane sulla superficie luccicante di una passerella o di una discoteca. Sorprendentemente, vista la rilevanza politica e umana dell’argomento, trattato con ben altra sensibilità dallo stesso Murphy in The Normal Heart (2014), l’AIDS compare marginalmente e quasi come un siparietto comico. La scena in cui Halston fa il test per l’HIV non comunica tanto angoscia, adottando, invece, un tono grottesco per l’ennesima performance di Halston che si nasconde dietro enormi occhiali scuri e un berretto che vorrebbe quasi essere un passamontagna.

Non può non tornare in mente la distinzione fatta ormai 30 anni fa dallo studioso Joseph Cady tra rappresentazioni artistiche immersive (“immersive”) ed emersive (“counterimmersive”) del virus. Chiaramente, la scelta della miniserie è del secondo tipo in quanto non porta lo spettatore ad alcun confronto diretto con la malattia. Anzi, dopo la diagnosi, Halston si imbarca per un nuovo, infinito viaggio, intimando al proprio autista semplicemente di guidare “ovunque”. La stessa negazione della malattia, che viene messa in scena come scelta dello stilista, diventa la strategia narrativa per proteggere gli spettatori, ma anche il glamour del brand, dall’immaginario del contagio. Halston personaggio e Halston la serie svettano sulla materialità della storia: sia rispetto ai meccanismi economici, liquidati dal designer con costanti “vaffanculo” ma che, effettivamente, lo portarono a perdere il controllo della sua azienda, sia rispetto alla risposta sanitaria inadeguata che portò lui e milioni di altri a perdere la vita. Ma il brand è salvo.

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