Hanno clonato Tyrone: un nuovo modo di ripensare il cinema di genere

 
 

In Hanno clonato Tyrone (Netflix), esordio dietro la macchina da presa di Juel Taylor, il quartiere nero di Glen è immerso in una notte perenne, anche quando è giorno. Taylor sfrutta una messa in scena derivativa per rileggere gli stereotipi della blaxploitation e adattarli al linguaggio politico del presente: cupo nei toni e nella rappresentazione del sottobosco proletario e criminale in cui annaspano i neri e graffiante nello humour citazionista, Hanno clonato Tyrone racconta il razzismo americano proseguendo il discorso della rappresentazione della realtà socio-politica afroamericana che, in modi diversi, da Son of Ingagi (1940) è arrivato fino a Jordan Peele.

Gli ultracorpi in cui si imbatte il trio protagonista del film – spacciatore, pappone e prostituta – non escono però dai baccelli come nel film di Don Siegel e non hanno origine aliena, sono doppi della gente del quartiere malfamato di Glen; qui, Slick (Jamie Foxx), magnaccia in declino, organizza i suoi loschi traffici insieme a Yo-Yo (Teyonah Parris), procace e grintosa “pantera” (per dirla come Darius James) che ammalia i clienti e sogna una vita normale. Slick è spesso in rotta di collisione con Fontaine (John Boyega), pusher dilaniato dalla morte del fratellino Ronnie per mano della polizia, ma non potrebbe mai immaginare di ritrovarsi il rivale in casa dopo averlo visto crivellato da sei colpi la notte precedente. Ritornato misteriosamente in vita, Fontaine, insieme a Yo-Yo e Slick, inizia un’indagine che lo porterà a scoprire un laboratorio segreto in cui i neri sono sottoposti a tremendi esperimenti.

“La speleologia è roba da bianchi”, sentenzia Yo-Yo prima di addentrarsi insieme ai suoi sodali nel mondo sotterraneo creato per manipolare il corpo e la coscienza neri; inframezzato da battute dai perfetti tempi comici e citazioni popolari che ripescano nell’immaginario action e sci-fi americano (si va da Rambo a X-Files fino a L’Uomo senza ombra di Paul Verhoeven), Hanno clonato Tyrone è un’opera in cui la fantascienza è usata in chiave di metafora politica, in un tempo e in uno spazio sociale in cui il conservatorismo a stelle e strisce ricorrerebbe all’ideologia woke solo per sminuire e ridimensionare la complessità di un film-denuncia come questo, in cui il terrore paranoico del complotto si fa corpo (nero) a uso e consumo dei bianchi e matrice esperienziale.

Siamo di fronte a un nuovo modo di ripensare il cinema di genere, che innova la blaxploitation da dentro, rendendola cinematografia realizzata dai neri per i neri, senza che il benestare del pubblico wasp possa ritenersi indispensabile e riportando in auge quell’urgenza di ribellione nata proprio con il movimento Black Lives Matters. Se i dialoghi sono come “colpi di pistola”, parafrasando Tarantino che parla dello stile narrativo di Elmore Leonard, l’intera architettura del film si edifica, metaforicamente, su uno spazio liminale in cui la minoranza afro è manipolata all’interno del tessuto socio-culturale di un’America frutto di un’insopprimibile ideologia elitaria bianca (“che vive da sempre nelle ville costruite dagli schiavi”, come dice un personaggio del film): un rinnovato e psicanalitico “sunken place”, non luogo dell’inconscio in cui sono annegati i personaggi di Jordan Peele che guardano, inebetiti, se stessi alla mercé dell’uomo bianco; allo stesso modo, Fontaine e compagni scrutano i loro doppi, riflettono sul proprio corpo, sulle rispettive identità violate e su un’esistenza manipolata da un razzismo radicato e istituzionale.

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