Murina: corporeità e immaterialità nell’opera prima di Antoneta Alamat Kusijanovic

 
 

L’estate e l’adolescenza. I corpi, il mare, le ferite che sanguinano e le fragilità annegate. Queste sono le premesse del primo lungometraggio di Antoneta Alamat Kusijanovic, vincitore del premio Camera d’or al festival di Cannes 2021 e disponibile su Mubi. Sono “ingredienti” utilizzati spesso (un esempio recente può essere Falcon Lake, di Charlotte Le Bon) in tanti altri coming of age, ma la regista di Dubrovnik adotta il suo punto di vista, raccontando la crescita dell’adolescente Julia divisa a metà tra la prepotenza del padre (Ante) e la passività della madre (Nela).

Ci troviamo su un’isola al largo della costa della Croazia, dove Julia vive e subisce costantemente le vessazioni di suo padre. È verso di lei, infatti, che si accanisce maggiormente, lasciando alla madre qualche breve momento di tregua. Insinua che voglia provocare chiunque incontri, critica ripetutamente il suo aspetto fisico («Hai le spalle di un uomo», le dice una delle tante volte), si insinua subdolamente nei suoi progetti futuri, suggerendo una mancanza di capacità e acume. Con l’arrivo di un amico di famiglia, però, le cose cambiano. Diventano più chiare, quantomeno. Javier, ricco imprenditore, è innamorato di Nela, ma si avvicina anche a Julia, offrendole una possibilità di fuga da quella sorta di prigionia marittima.

Non è solo una riflessione sulle prime pulsioni sessuali, quella che Antoneta Alamat Kusijanovic vuole suggerire. C’è, sicuramente, un’attenzione, mai morbosa, verso i corpi, ma inserita in un discorso più ampio, che arriva ad affrontare anche argomenti attuali. Nella pellicola, infatti, si fa riferimento ad un tragico evento realmente accaduto, che ha scosso l’intera Croazia: la morte di otto pompieri che spegnevano un incendio nel Parco nazionale delle Kornati. La regista fa parlare del fatto i suoi personaggi. Ci sono, poi, tra gli elementi essenziali del racconto, i desideri di un’adolescente che si sottrae ai giudizi del padre che le ripete di smetterla di pensare di essere “così” intelligente, perché ci sono milioni di persone migliori di lei, più meritevoli di ricevere un’istruzione ad Harvard. Julia reagisce finché può, ma quando vengono meno le forze fugge in mare, l’unico (non)luogo in cui può realmente sentirsi libera. In cui può anche «versare del sangue». È l’unico modo, allora, per potersi esprimere (anche senza parole), concedendosi il diritto di soffrire.

La violenza fisica e verbale di Ante nei confronti di Julia diventa - nel corso della narrazione - insostenibile. Le parole offensive, gli strattonamenti e le volgarità aumentano progressivamente, lasciando pochissimi istanti di respiro. Come quando si riprende fiato prima di immergersi nuovamente in acqua. L’elemento che la regista ha scelto per sviluppare la sua riflessione si ricollega a pellicole del - e di - genere, come quelle di François Ozon (l’acqua e l’adolescenza sono elementi costanti nella sua filmografia, alcuni esempi sono Swimming Pool, Giovane e bella, Estate ‘85), prima di tutto. Ma anche a opere come A Bigger Splash, di Luca Guadagnino. Antoneta Alamat Kusijanovic “si mantiene a galla” tra il coming of age e un’opera che fa luce su alcuni aspetti drammatici di oggi, con l’intento di parlarne per denunciarli. Il vero oggetto della paura - per Julia come per sua madre - è la non accettazione da parte degli altri, e quindi la solitudine, l’abbandono. È per non perdere l’appoggio dell’altro - in una fase in cui, per un’adolescente, dall’accettazione si circoscrive la propria personalità - che ci si spinge oltre. Perché si rincorre il bisogno di sentirsi definiti e non evanescenti.

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