La ragazza di neve - Indagini e traumi sospesi

 

È il 5 gennaio 2010 e a Malaga si celebra la tradizionale sfilata dei Re Magi. Amaya è insieme ai suoi genitori ma improvvisamente - distratta da qualcosa che la incuriosisce - si allontana, perdendosi tra la folla. La ragazza di neve (disponibile su Netflix dal 27 gennaio e in testa alla top ten delle serie italiane più viste), è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Javier Castillo, da cui riprende gli elementi principali, apportando, però, diverse differenze rispetto alla storia originale. L’ambientazione, infatti, non è la stessa, così come l’arco temporale, insieme ad alcuni dettagli relativi all’età e al nome della bambina.

Pioggia forte, un impermeabile giallo, un palloncino e una maschera da coniglio: la sparizione di Amaya richiama subito - oltre all’immediato It - anche tutti i precedenti contesti in cui il coniglio è stato l’elemento principale della narrazione (basti pensare a Donnie Darko o Rabbits e Inland Empire). E la regia si serve di questi - ed altri - riferimenti per legare gli immancabili ingredienti del crime-poliziesco alle questioni personali dei personaggi. La scomparsa della bambina, infatti, è funzionale allo sviluppo di altre sottotrame, che riguardano una studentessa di giornalismo interessata al caso, Miren Rojo (Milena Smith, già vista in Madres paralelas, di Pedro Almodóvar), che, avendo subito anni prima una violenza, si identifica con Amaya e con il dolore dei suoi genitori. Le indagini della polizia procedono in parallelo rispetto a quelle della stampa e si sviluppano in un intervallo temporale di dieci anni: studiano il caso con mezzi e per scopi diversi, seguono possibili piste, individuano potenziali colpevoli. 

Quello che cambia completamente il corso delle (varie) indagini è una videocassetta inviata a Miren e rivolta ai genitori di Amaya. Anche in questo, inevitabilmente, i sei episodi della serie spagnola La ragazza di neve (diretta da David Ulloa e Laura Alvea) richiamano all’attenzione opere - tanto per fornire un esempio - come Caché (Niente da nascondere) di Michael Haneke o Strade perdute di David Lynch: pellicole in cui è l’espediente delle cassette a consentire allo spettatore di porsi all’interno e all’esterno della narrazione, permettendogli, cioè, di spiare, in qualche modo, soffermandosi sul peso delle responsabilità e chiedendosi qual è il ruolo di chi osserva e quali le possibili colpe. I flashback temporali, poi, fanno sì che la storia stratificata - con diversi sviluppi ed interpretazioni - si sveli un po’ alla volta, accrescendo la tensione e fornendo indizi che man mano forniscono un’idea chiara della vicenda. 

Sulla componente crime si innesta quella legata al dramma non solo personale ma sociale, arrivando a toccare temi (delicati, quindi per la gran parte suggeriti e avulsi da intenti morali) come la maternità in tutte le sue forme, la violenza subita che può aderire così tanto al vissuto di una persona da renderla carnefice, e non più vittima. Entrano, allora, in campo ipotesi di vendetta scaturite da dolori e traumi irrisolti. Ipotesi, cioè, che vedono possibile - o persino appagante - la prospettiva di vendicare gli abusi subiti perpetrando ad altri la stessa violenza. Il titolo della seria allude al libro che Miren ha scritto: È come se la bambina che avevo sempre cercato si fosse trasformata in neve, non la neve che si scioglie quando tocca le nostre dita, ma una neve impossibile da intrappolare, spiega. Ed è come se anche lei avesse voluto intrappolare quel dolore, mettendolo per iscritto, analizzandolo; come se riviverlo - e ripeterlo - la potesse aiutare a liberarsi da quella serie innumerevoli di immagini sovrapposte nella sua memoria. Quale altro modo se non la scrittura per rifiutarsi di cedere all’identificazione totale con il Male?

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