Non sei invitata al mio Bat Mitzvah: i tanti riti dell’adolescenza contemporanea

 
 

Nell’ontogenesi di ciascun essere umano è possibile individuare quel segmento di vita definibile come l’età delle apparenze: un momento nel quale si conferisce particolare importanza ad oggetti materiali, norme comportamentali e pensieri che non si supportano realmente, solo per il semplice scopo di ottenere consenso e influenza agli occhi degli astanti.

Non sei invitata al mio Bat Mitzvah tenta di approfondire questo momento, collocandolo all’interno del tredicesimo anno d’età: la scelta è estremamente condivisibile, in quanto rappresenta forse la fase più delicata dell’intera adolescenza, nella quale non ci si riconosce più ufficialmente bambini, ma nemmeno pienamente adulti, con problemi e idee che non si configurano in nessuna delle due categorie, provando un senso di smarrimento e una costante ricerca di consenso attraverso le azioni più sciocche e inimmaginabili.

Sammi Cohen riesce a catturare benissimo questo sentimento, dalle camminate da t-rex con i tacchi a spillo fino ai tuffi da scogliere altissime nel pieno del ciclo mestruale. Ogni imbarazzo nascosto ai genitori, ogni piccolo vergognoso segreto appartenente all’infanzia è ironicamente catturato dalla regista, la quale decisamente ricorda e ci ricorda cosa significa avere quell’età. La cura dei dettagli non passa affatto inosservata attraverso la ricercatezza riservata alla ricostruzione delle camerette delle giovani protagoniste, ricche di poster di Taylor Swift e Olivia Rodrigo, dimostrando la forte volontà di riportare un’accurata rappresentazione degli interessi e delle tendenze di una prima adolescenza sospesa tra Gen Z e Gen Alpha. 

La presenza della tecnologia è infatti estremamente centrale nelle dinamiche presentate, mescolandosi perfettamente con quello che è il rito d’iniziazione ebraico al centro del film: il Bat Mitzvah, cerimonia in cui ciascun tredicenne legge un passo della Torah, maturando coscienza individuale e spirituale. Decisamente, per le protagoniste del racconto, il secondo elemento importa meno rispetto al desiderio di diventare adulti e di offrire agli invitati la festa più memorabile, evidenziando la reale piega commerciale che stanno assumendo i riti di iniziazione nel mondo occidentale globalizzato, ormai quasi scardinati dalla consapevolezza religiosa. La narrazione, infatti, intreccia il vero Bat Mitzvah ai tanti piccoli riti d’iniziazione adolescenziali che Stacy e Lydia devono affrontare, tra sfide estreme e scoperta della propria sessualità. Sarà proprio la cotta condivisa per Andy (esplicita per l’una, segreta per l’altra) e la ricerca di attenzioni da parte del gruppo più popolare di ragazze a mettere a dura prova la loro amicizia e, insieme ad essa, tutto il sistema di empowerment femminile, il quale si mostra invece stabile per tutto il film nella relazione tra Ronnie, sorella di Stacy, e la sua migliore amica. 

Da cornice, un mondo che accoglie trasversalmente tutte le altre generazioni, presentate come coloratissime, eccentriche e dalla forte volontà di comprendere l’impenetrabile mondo di figli, nipoti e studenti, fatto di piccole tragedie mediatiche, estrema fluidità e incompatibile con i problemi della collettività, riscoprendo come ciascuna generazione affronta ogni ostacolo con il giusto peso per quel dato momento. 

Il titolo mainstream nel suo piccolo è considerabile di formazione, dal momento in cui Stacy realizza che senza sentimenti autentici e l’affetto della propria migliore amica lo spettacolo post-rituale non è altro che un involucro vuoto, riappropriandosi dei sani valori che realmente caratterizzano l’adolescenza. Proprio attraverso questa presa di consapevolezza la protagonista si lascia maturare e crescere, facendo un passo avanti verso la tanto bramata età adulta

La famiglia Sandler regala al pubblico un film estremamente commerciale, ma apprezzabile negli sforzi di immedesimazione della regista Sammi Cohen in un’età estremamente complicata e ritagliando in un mondo sempre più occidentalizzato lo spazio per parlare di culture e rappresentanze spesso ignorate nei media, seppur estremamente mescolate col costume statunitense.

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