Numéro Zéro: l’opera-mondo di Jean Eustache

 
 

Il restauro de La maman et la putain e il suo arrivo in sala, ad opera di I Wonder Classics ha aperto le porte ad un’immersiva retrospettiva online dell’intera opera di Jean Eustache. Infatti, su IWONDERFULL sono disponibili numerosi titoli della filmografia del regista di Pessac, tra cui emerge il documentario Numéro Zero: un lungo piano sequenza che imprime sulla pellicola il volto, il corpo e la storia di Odette Robert, nonna del regista che lo ha cresciuto in seguito alla separazione dei genitori.

Centodieci minuti di girato che non sono stati montati, ma mostrati al pubblico grezzi, veri, autentici, sporchi ed imperfetti, eppure bellissimi e travolgenti nel loro nudo intento di rendere per immagini tangibili i ricordi che ricostruiscono una vita difficile e spesso infelice. Parole e immagini a servizio reciproco per un esperimento che riscrive il ruolo e il potere del mezzo cinematografico. Detto ciò, l’intento di Eustache è doppio: non solo una nuova fruizione linguistica del mezzo, ma anche – e ancora – la possibilità di scavare nella memoria, privata e collettiva, che da quella di nonna Odette si protrae fino a quella collettiva di un’epoca passata fatta di persone e abitudini che nel 1971 sono ormai desuete se non obsolete.

Il regista, sempre di spalle, invita la nonna a ripercorrere l’intero arco della sua vita, disseminata di insidie che vanno dalla precoce morte della madre, tisica (siamo nel 1907), all’entrata in scena di una zia/matrigna che la disprezza, al matrimonio a quindici anni, la nascita di cinque figli di cui ne sopravvivono due, i tradimenti di un marito processato per oltraggio al pudore. Tra vita e morte, spostamenti di villaggio in villaggio, lavoro in fabbrica e malattie che conducono alla quasi totale cecità, Odette, esterna dolore, gratitudine e compassione in un instancabile flusso di parole che si aggrovigliano, rincorrono e ripetono senza sosta e diventano materiale emotivo su cui lo spettatore è portato a prestare attenzione. Il tempo dell’intervista, scandito dal vissuto degli oggetti sulla tavola – bicchieri, bottiglia di Whisky e portaceneri con mozziconi – si alterna a quello storico che riporta alla mente – e alla vita – usanze e celebrazioni popolari come quella della Rosière de Pessac, a cui il regista dedica due lungometraggi, uno del 1968 e uno del 1979, così che la stessa concezione del tempo e del suo passaggio diventi elemento tangibile di un racconto multiforme che il cinema può interpretare e mostrare senza censure o interventi esterni.

Ciò che sembra statico, noioso, inutile ad un pubblico estraniato dalla monotonia dell’inquadratura e del soggetto ossessivamente ripreso con fissità, segna per Eustache il tentativo di spogliare dell’involucro dell’ordinario, ciò che, come la sopravvivenza alle intemperie della vita, è straordinario. Non è un semplice mettere in scena la vita di Odette, neanche un dare importanza ad un proprio famigliare, piuttosto un indagare le radici del proprio essere, e dunque anche della propria arte. Numéro Zero, è, come tutto il cinema di Eustache, un’opera-mondo, dichiarazione di poetica e di intenti, di una libertà inconsueta che passa dal mostrare per giungere al percepire.

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